giovedì 23 luglio 2009

La guerra dei Piffer per liberare l'Italia


Da La Stampa del 22 luglio 2009 riprendiamo questo interessante articolo di Richard Newbury
La guerra dei Piffer per liberare l'Italia
L’epopea del battaglione pakistano inquadrato nelle truppe alleate
Tra le sue imprese la cacciata dei tedeschi da Assisi nel 1944

Quando Giancarlo Aragona, ambasciatore italiano a Londra, mi invitò a presentare il libro del suo ex collega Alessandro Cortese de Bosis sulla sua esperienza di giovanissimo ufficiale di collegamento con un reggimento indiano in Italia durante la Seconda Guerra mondiale, avevo solo qualche nozione teorica dei sedici Paesi che avevano combattuto sotto il nome di Nazioni Unite, come gli Alleati erano indicati ufficialmente. Ma dopo la presentazione di In terra di nessuno. Gli Ufficiali Italiani con i Reparti Alleati: 1943-1945 (ed. Gabrieli 1994) alla Torre di Londra, davanti a generali pakistani e indiani, e ovviamente ai figli e alle figlie inglesi e pakistani dei soldati del 6° Battaglione Reale e del 13° fucilieri. Il mio interesse è diventato personale. Tanto più che ero appena stato al quartier generale della Marina britannica a Portsmouth, ospite del raduno del reggimento dei «Piffer», i fanti di frontiera dell’esercito pakistano. Lì, seduto sotto i ritratti dei grandi ammiragli e con una portaerei - oltre alla Victory di Nelson - ormeggiata dietro al campo da polo, abbiamo fatto un brindisi alla Regina con il vino e uno al presidente pakistano con l’acqua.
Questo battaglione di cinquecento uomini rappresentava appena l’uno per cento dei 50 mila volontari indiani tra i 16 e i 22 anni che combatterono in Italia come terzo contingente per numero di uomini dopo i britannici e gli americani e lasciarono 5.782 compagni d’arme nei cimiteri di guerra di Arezzo, Sangro, Cassino e Forlì e in quello dei Fucilieri Reali Gurkha a Rimini. Lucca, Firenze, San Marino, Cesena, Forlì, Ferrara e Bologna devono la loro liberazione a quel sacrificio. La 4ª, 8ª e 10ª divisione indiana erano in Italia in una situazione pirandelliana, quasi Due eserciti in cerca di un campo di battaglia.
Era tutt’altro che inevitabile che gli alleati invadessero l’Europa passando per l’Italia: quello era il piano C. Churchill preferiva i Balcani, per incontrare «amichevolmente» Stalin il più a Est possibile. Gli americani cercavano ostinatamente uno scontro sanguinoso invadendo subito il Sud della Francia. Era il capo di stato maggiore britannico, il feldmaresciallo Alan Brooke, a volere la Sicilia: come addestramento al D-Day in Normandia, giacché riteneva che le truppe Usa avessero bisogno di molta più esperienza di battaglie prima di fronteggiare la Wehrmacht, che li aveva già strapazzati in Tunisia.
Nella «macelleria italiana» morirono 350 mila alleati e 370 mila tedeschi, ma le Nazioni Unite sconfissero il formidabile esercito tedesco e gli ostacoli naturali dell’accidentato territorio italiano. Comandante di queste Nazioni Unite era il generale inglese Sir Harold Alexander. Le truppe americane inizialmente rappresentavano il 25 per cento, ma presto scesero al 10 per cento, compresa la 92ª Divisione «Negro», che dovette essere sciolta per scarsa moralità, e i battaglioni Nisei degli hawaiani di origine giapponese, i più decorati di tutta la guerra. Nell’agosto 1944 arrivarono poi 25 mila uomini della Divisione Brasiliana e il Gruppo Combattenti Legnano. Quattro divisioni coloniali francesi raggiunsero la 5ª Armata, 45 mila polacchi l’8ª, insieme alle brigate ebraica, palestinese e greca, ai gruppi Friuli e Cremona, ai reparti della Folgore, della Nemmo e al Reggimento San Marco.
«Britannico» era un termine generico per le divisioni che arrivavano non solo dalle isole britanniche ma anche da Nuova Zelanda, Sud Africa, Canada, e per le unità da Rhodesia, Australia, Nigeria, Ke-nya, Lesotho e ovviamente India. Quando Roosevelt chiese a Churchill perché nel 1942 non avesse concesso l’indipendenza all’India, il premier inglese gli rispose che con due milioni e mezzo di volontari l’India aveva più soldati del presidente degli Stati Uniti. Alle 50 mila truppe scelte delle divisioni indiane in Italia andarono 6 delle 20 «Victoria Cross», la più alta onorificenza militare britannica. Quando parliamo di scontro di civiltà dobbiamo ricordare che Assisi è stata liberata dalle truppe musulmane dei Piffer e i dipinti degli Uffizi sono stati salvati dalla fanteria leggera Mahratta.
Mentre i partigiani scendevano dalle Alpi o venivano incorporati negli eserciti alleati, le forze italiane risalivano verso Nord e la Cremona fu la prima unità delle Nazioni unite a oltrepassare il Po, ma la strada era stata sgombrata dai Piffer. Il diciottenne sottotenente Alessandro Cortese de Bosis era allora un volontario dell’esercito italiano, con la funzione di ufficiale di collegamento con il battaglione formato da musulmani, sikh e seguaci del giainismo. Il 9 aprile 1945 vide il diciottenne Sepoy Ali Haidar attraversare il Senio vicino a Fusignano e, sebbene gravemente ferito, abbattere due postazioni per mitragliatrice, meritandosi la «Victoria Cross» per aver salvato tante vite senza pensare alla propria. Questo battaglione di 500 uomini ne perse 1502 tra morti, dispersi e feriti e dovette essere ricostituito tre volte. L’ambasciatore Cortese de Bosis, che ha dedicato la vita all’aiuto e alla memoria del «suo» reggimento, ci ricorda nel libro In terra di nessuno che questi giovani sud-asiatici «combatterono nella guerra giusta, al posto giusto e vinsero quel conflitto sanguinoso. Non si meritano un monumento?».
I tedeschi gliene hanno già eretto uno, perché l’élite della Wehrmacht, gli 11 mila uomini della 1ª divisione paracadutisti nell’aprile 1945 pretesero di arrendersi solo ai loro avversari di Cassino e Livorno, per i quali avevano un’altissima considerazione: l’8ª divisione indiana.
Il futuro console generale a New York ricorda nel suo libro anche una discussione del tempo di guerra con un collega ufficiale, un professore di Oxford, sul feldmaresciallo Lord Alexander of Tunis, che aveva il comando alleato del Mediterraneo e dell’invasione dell’Italia, e Alessandro Magno: si chiedevano se avesse più nazionalità l’inglese nel suo 15° Gruppo di armate o il macedone nel suo esercito composito e se la marcia degli Alleati da Alessandria d’Egitto a Cesena fosse stata più lunga di quella del condottiero greco fino all’India.

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