Il Messaggero.it - Lunedì 30 Maggio 2011 - 14:06
Fr.Nu
ROMA - E’ lo storico Marcello Pezzetti, direttore del futuro Museo della Shoah di Roma (entro l’autunno la gara d’appalto, entro l’anno il via ai lavori a Villa Torlonia, promette), a tirare fuori l’annosa questione dell’Armadio della vergogna. «Il problema è che quando la Germania nel ’64 chiese a tutti i Paesi di fornire la documentazione per dare il via ai processi contro i criminali nazisti, l’Italia non fornì un bel niente perché era tutto chiuso lì dentro».
Trattasi di un armadio della Procura militare di palazzo Cesi a Roma, contenente 695 dossier sui crimini di guerra commessi durante l’occupazione nazifascista, dall’eccidio di Sant’Anna di Stazzema alle Fosse Ardeatine. A trovarlo, girato contro un muro, fu nel 1994 il procuratore militare Intelisano che si stava occupando del processo contro l’ex SS Erich Priebke. «I primi processi in Italia vengono fatti nel ’45 con gli inglesi e gli americani, vengono istituite le corti straordinarie d’Assise per punire i collaborazionisti italiani. Ma nel ’46 c’è l’amnistia di Togliatti. Vengono processati Kappler, Reder e pochi altri. Bisogna aspettare il 1994 perché Intelisano scopra nel famoso Armadio della vergogna i documenti che erano stati occultati. Provvisoriamente dal 1960». «Perché questo patto di silenzio - si chiede Pezzetti - su un episodio tra i più rovinosi per la giustizia italiana? Perché così non si parlò dei crimini italiani commessi fuori dai nostri confini, dai Balcani alla Grecia. Ma così l’Italia i conti con il passato non li ha mai fatti».
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