sabato 13 febbraio 2010

Un massacro girato al rallenti

Dal manifesto del 12 febbraio 2010
UN MASSACRO GIRATO AL RALLENTI
Fotogrammi DI STORIA
di Luca Baldissara

La memoria pacificata. Il film «L'uomo che verrà», dedicato all'eccidio di Marzabotto, ha fatto parzialmente i conti con le politiche di potenza nazista e fascista. Solo mettendosi dalla parte delle vittime si può evitare una rappresentazione fredda e distaccata di un passato ridotto a parentesi criminale di un passato remoto. Una lettura per il presente
Già per uno storico è difficile commentare un film su fatti del passato resistendo alla tentazione di misurarne il grado di rigore filologico. Se poi l'opera riguarda eventi studiati direttamente, diviene davvero ostico liberarsi dei vincoli posti dalla peculiare condizione di spettatore «informato dei fatti». È quanto mi è accaduto assistendo alla proiezione del film di Giorgio Diritti L'uomo che verrà, che racconta la cosiddetta «strage di Marzabotto», alla quale, con Paolo Pezzino, ho dedicato un volume frutto di un pluriennale lavoro di ricerca (Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole). Sono dunque entrato in sala con un misto di curiosità, aspettativa e anche sospetto: curiosità per come il regista avesse scelto di raccontare questo episodio; aspettativa per l'unanime riconoscimento tributatogli; sospetto sia riguardo le forme della rappresentazione di ciò che appare quasi impossibile rappresentare (il massacro con modalità particolarmente cruente di 770 persone, in grandissima parte donne e bambini), sia verso quella retorica elogiativa che ha finito con il circondare il film e che spesso cela la sostanza di un'opera inclinante ai buoni sentimenti che mettono tutti d'accordo.
Le immagini che si susseguivano sullo schermo non trasudavano però alcuna facile e lacrimevole retorica. L'uomo che verrà mantiene dal primo all'ultimo fotogramma un registro che può addirittura apparire freddo, distaccato, algido: non già perché lo sia, ma perché opta per una strategia narrativa che racconta la tragedia attraverso gli occhi di Martina, una bambina che vede ogni giorno, e con sempre maggiore frequenza, irrompere la guerra nella vita della sua famiglia e della comunità dei contadini di montagna cui appartiene.
I volti della guerra
La guerra assume le sembianze ora dei soldati tedeschi che salgono a cercare cibo non rinunciando ad importunare le ragazze, ora dei giovani della zona che si riuniscono per decidere se nascondersi o impugnare le armi, ora degli adulti preoccupati per i bombardamenti e per gli approvvigionamenti, ora degli sfollati che giungono spaventati dalla città, ora dei partigiani che appaiono dapprima eroi giocosi, poi martiri quando caduti o feriti, e anche spietati interpreti della guerriglia quando uccidono i soldati catturati. Diritti tiene lontana la retorica perché rifugge il facile pedagogismo - già sappiamo che la guerra è lutto e dolore - e perché non ammicca ai buoni sentimenti dello spettatore. Sceglie di raccontare il massacro attraverso gli occhi di chi non solo non sa cosa accadrà domani ma che non è del tutto consapevole del pericolo di ciò che accade oggi, di chi non sa bene perché i tedeschi stiano proprio lì e non con i loro bambini là dove abitano, lontano, di chi non ha paura perché la curiosità del nuovo prevale sulla paura dell'ignoto, di chi assisterà al massacro senza coglierne appieno la tragica portata degli effetti e, grazie a un primigenio vitalismo, si salverà e salverà il fratellino appena nato (l'uomo che verrà, appunto), al contrario del padre, che un insopportabile dolore condurrà a correre letteralmente incontro alla morte.
Il massacro si abbatte su di una comunità contadina descritta sino a quel momento nei ritmi lenti della sua vita quotidiana, ricalcati sui ritmi della natura. Tempi di vita e lavoro che si intrecciano con i ritmi della socialità e che si scontrano con l'aspra dimensione sociale dei rapporti di mezzadria e con la dimensione politica del fascismo, che a quei rapporti e a quelle terre tiene ancorati i contadini. Anzi, tra i meriti del film vi è quello di descrivere con accuratezza la vita contadina, restituendone la lentezza e la ripetitività di quei gesti secolari senza tradurle in noia, e di restituirne esemplarmente l'habitat grazie ad una straordinaria fotografia, che dà conto tanto della maestosità narcotica di quei paesaggi quanto delle ostili condizioni ambientali e climatiche di quel territorio.
Il quarantaquattro sulla divisa
È un mondo che non c'è più, scomparso da oltre mezzo secolo, e che è difficile da comprendere oggi. È un mondo sul quale sta per abbattersi il ciclone della guerra, un fronte di fuoco che avanza inesorabilmente. Che piomba sulla comunità annunciato da tuoni e lampi, quelli delle artiglierie che nel settembre 1944 battono le difese della Linea Gotica, poco più a sud di Monte Sole e delle povere case contadine abbarbicate sui suoi pendii.
La guerra evocata in questo film non ha buoni e cattivi, ragioni legittime per combattere e strategie da attuare. È un evento distruttivo che colpisce la comunità, allo stesso modo di un evento naturale. Non ha senso, non ha spiegazioni, non ha possibilità di essere razionalizzato. Solo subìto. Così, quando giungono quei tedeschi con il quarantaquattro sul colletto (come spesso le SS runiche erano percepite) essi appaiono immediatamente diversi da quelli che li avevano preceduti, non parlano la loro lingua, la urlano. Fanno paura, sono cattivi, impartiscono ordini gutturali e incomprensibili. Fanno quello che sono stati addestrati a fare, sono quello che gli è stato insegnato, come afferma un ufficiale nella sagrestia di uno dei cinque sacerdoti che troveranno la morte nel massacro. Fanno quello che allora nessuno si aspetta: uccidono indiscriminatamente gli inermi, anziani e paralitici, donne e bambini. Distruggono e ammazzano di giorno, ridono e festeggiano la sera. Il ciclone bellico è sospinto in avanti e colpisce per mezzo di agenti che hanno perso - se mai hanno avuto - ogni profilo umano. Come trombe d'aria, si avvicinano rombando, fanno tabula rasa, passano oltre lasciando una scia di distruzione e morte, ferite fisiche e morali. Perché?
La risposta al lancinante «perché» è implicitamente suggerita e risolta da Diritti nell'insensatezza della violenza, nella mancanza di un perché razionalizzabile e comprensibile. L'impossibilità di rispondere si fa dunque risposta astorica. I morti di Monte Sole del 1944 non sono diversi da quelli di My Lai nel Vietnam del 1968, da quelli di Srebeniça del 1995, dalle vittime delle guerre di Cecenia e dell'Iraq. Là dove vi sono uomini che si combattono, là vi sono uomini - e donne e bambini - che soffrono e muoiono. Non vi è un perché al massacro di civili inermi, alla distruzione senza apparente necessità, alla morte inflitta con la volontà di far soffrire, alla derisione e alla disumanizzazione delle vittime. Il film si rivela quindi un poetico omaggio alle vittime di allora, implicitamente a quelle di oggi e di tutte le guerre. Ma un omaggio che mentre da una parte ammonisce circa l'intrinseca, cieca e ineliminabile violenza della guerra in sé, dall'altro può generare un senso di distanza tra noi e ciò che vediamo sullo schermo. Giacché è proprio l'imprevedibilità e l'incomprensibilità del massacro a distanziarci da esso, a rendere impossibile qualsiasi intelligenza dell'evento.
Un film non è però un saggio e non va giudicato con gli strumenti della storiografia. Si tratta semmai di considerazioni intorno al contesto del film, a quello «spirito dei tempi» che non può non condizionare lo sguardo e la percezione degli spettatori, pur diversi per età, esperienza, cultura. Non si può infatti ignorare che il cinema rappresenta una porta d'accesso al passato, che un film è - può essere - uno strumento importante di riordino del passato, quindi anche un modo di stabilire come stare nel presente con la coscienza e la conoscenza, la rappresentazione e la memoria del passato. E questo film compie al riguardo una scelta precisa: assume il punto di vista della comunità delle vittime, di coloro che hanno subìto la violenza senza comprenderne le ragioni. In fondo, gli occhi di Martina sono anche i nostri: guardiamo a quel massacro estraniati, incapaci di cogliere le ragioni di quanto sta per accadere, increduli quando accadrà, sconcertati e confusi dopo che è accaduto.
La strategia della tabula rasa
Invece, quel massacro ha una ratio: il comando tedesco deve garantirsi il controllo di un territorio strategicamente cruciale, nel cuore della Linea Gotica alla quale gli Alleati stanno portando un durissimo attacco, che si teme possa essere supportato da azioni di guerriglia della brigata partigiana che opera in quel settore. E la strategia adottata sarà quella della tabula rasa: non si contrastano i partigiani cercando di agganciarli e annientarli in combattimento, ma azzerando le condizioni che rendono possibile l'operatività della brigata. Si distrugge l'habitat della guerriglia per impedirne l'azione. Si incendiano le case dove trovano ricovero i partigiani, si ammazzano i civili che spesso ne sono anche i familiari, sempre le fonti di informazione, si rende inospitale il territorio che li ospita. E con il massacro quella brigata, che pure ha pochissime perdite, in effetti cesserà di esistere. Dal punto di vista tedesco, il massacro è una brillante operazione militare. Di guerra ai civili, certo, ma pur sempre riuscita nei suoi obiettivi. Non a caso, l'anello di una lunga catena di episodi simili nel corso della ritirata aggressiva che le armate tedesche stanno effettuando nell'Italia del 1944.
Si obietterà però che, anche ammettendo un tale scopo ad un massacro condotto come un'operazione di guerra, non occorreva sommarvi pure l'accanimento della violenza e del sadismo. Che anzi questo «di più» di violenza forse nega la strumentalità del massacro. Che, come sostenne un magistrato nel 1951 durante il processo a Walter Reder, l'unico tra i responsabili ad aver pagato con il carcere, si trattava di un «criminale in occasione della guerra». La guerra avrebbe cioè rappresentato solo il contesto favorevole alla liberazione degli istinti criminali, del male che già albergava in questi uomini. Ma proprio la sistematicità della politica del massacro, l'estensione degli episodi e di coloro che li eseguono, suggerisce che così non può essere. Che tale spiegazione non può bastare a comprendere. Perché nella cultura di guerra nazista confluiscono tante e diverse culture della violenza: quella militare, che vede nei combattenti irregolari, i partigiani, una minaccia al monopolio della violenza da parte dello stato, un elemento di indebolimento e possibile dissoluzione del potere statale; quella ideologica, che vede nel guerrigliero un sovversivo, che identifica il partigiano con il «rosso», il comunista (anche quando così non è, come proprio nel caso di questi partigiani); quella razziale, che giudica gli italiani infidi e inaffidabili, proprio come nell'esperienza coloniale degli europei gente spesso ritenuta un gradino al di sotto dell'umano, per questo massacrabile.
Le politiche di potenza
Se al massacro di Monte Sole si guarda non solo con gli occhi della vittima, se quegli scenari sono ripopolati dei vari protagonisti - oltre ai civili, i fascisti, i tedeschi, i partigiani, le spie - e delle loro culture, forse la memoria che verrà potrà trovare qualche fattore di risposta al «perché». Forse la comprensione - che non è giustificazione - potrà muovere un passo innanzi. E forse, allora, si ricollocherà la vicenda di quel massacro ormai lontano nella storia dell'Europa contemporanea, del suo rapporto con la guerra e con le politiche di potenza. Se non ci si addentra in questi territori, dissestati e minacciosi, inquietanti e angoscianti, non si comprenderà perché tutto ciò è potuto accadere: perché nel codice genetico della società occidentale è maturato nel corso dell'età contemporanea un approccio alla violenza che ha disumanizzato il nemico - l'indigeno da colonizzare, il combattente partigiano di una guerra irregolare, l'avversario politico da annientare - per poterlo poi distruggere. Potrà non piacere, potrà spaventare, potrà infastidire, ma se non si riconduce la violenza di quel massacro alla storia e alla cultura di un'epoca lunga non se ne potrà comprendere appieno l'origine, finendo magari con il relegarla nell'antro oscuro del male. Nemmeno se ne potranno cogliere gli elementi che perdurano, e che spiegano, ben più della natura intrinsecamente violenta della guerra, perché quei massacri si rinnovano. E se non vi è comprensione di quel passato non vi sarà neppure capacità di azione nel presente affinché ciò non abbia più ad accadere.

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