Dal Riformista del 6 luglio 2008 rioprtiamo l'articolo di Alberto Alfredo Tristano
"Balvano 1944, I binari dimenticati"TITANIC FERROVIARIO. Il dramma di Viareggio riporta alla memoria la più grande sciagura di sempre sui binari. Siamo in piena Seconda guerra mondiale. Il treno merci 8017 Napoli-Bari si blocca nella potentina Galleria delle Armi. Il monossido di carbonio miete 626 vittime. Una strage cancellata dagli archivi italiani. Ma ricordata da un libro di Gianluca Barneschi. E da una cappelletta
In questi giorni di dolore nazionale per la tragedia ferroviaria di Viareggio, è ritornato di sfuggita il ricordo di un dramma lontano, su cui per anni si è esercitata una sbalorditiva rimozione e che non è mai entrato davvero nella memoria collettiva per la sua infinita gravità. È il disastro di Balvano. Un autentico Titanic ferroviario: 626 persone morte in una lunga galleria, la Galleria delle Armi, dove un treno, l’8017, carico e lungo (quasi 500 metri) e appesantito di vagoni ben oltre il consentito, di colpo si bloccò. I passeggeri, imprigionati nel tunnel, furono avvelenati dal monossido di carbonio prodotto dal pessimo carbone pieno di zolfo, usato per alimentare il convoglio. Fu la più grande sciagura mai avvenuta sulle strade ferrate del mondo. Un fatto grave, inserito però (ed ecco forse il motivo primario del silenzio) nel più grave dei fatti: la guerra. La seconda guerra mondiale. Eravamo nel Mezzogiorno sbandato dei mesi del post-armistizio, con il Governo Badoglio installato a Salerno e i sovrani a Ravello, sotto la tutela degli Alleati (che gestivano in toto il servizio ferroviario nel Meridione). Eravamo nel marzo del 1944. A Balvano. Provincia di Potenza. Italia.
Su quel che successe non sono state spese molte parole, anche per la difficoltà di reperire materiale documentario utile alla ricostruzione dei fatti. Un sasso nello stagno della censura, di origine sostanzialmente militare prima che politica, è stato gettato qualche anno fa dal libro Balvano 1944 (editore Mursia) scritto da Gianluca Barneschi, avvocato nel campo delle radiodiffusioni e telecomunicazioni, esperto di storia dei trasporti. Il libro è frutto di un decennio di ricerche svolte tra archivi italiani ma soprattutto esteri, in particolare inglesi. Racconta al Riformista l’avvocato Barneschi: «L’unico atto ufficiale di fonte italiana che si occupa della tragedia è quello di un Consiglio dei ministri del Governo Badoglio, prodotto pochi giorni dopo il disastro, che si regge su due grosse inesattezze dai contenuti infamanti e profondamente offensivi verso le vittime. Perché si parla di loro come di “contrabbandieri” e “viaggiatori di frodo”. Naturalmente non va escluso che a bordo ci fossero anche contrabbandieri: molti di questi viaggiatori lasciavano Napoli, Salerno e i comuni delle loro cinte urbane per raggiungere la Basilicata e la Puglia alla ricerca di cibo, che veniva scambiato con capi d’abbigliamento, lenzuola, coperte, posate. Probabile che una parte di queste merci provenissero dal mercato nero. E tuttavia a bordo c’erano bambini, donne incinte, militari, perfino un professore universitario. Non è proprio l’immagine di chi vive di contrabbando. Quanto poi all’altra inesattezza, quella del frodo, il Governo semplicemente disse il falso: molti dei viaggiatori furono trovati in possesso di titoli di viaggio, che venivano emessi pur trattandosi di un treno merci».
Proprio la presenza di questi biglietti fu decisiva per ottenere almeno l’indennizzo per i familiari delle vittime: «Il disastro di Balvano venne compreso tra quelli indennizzabili dalle legge 10 del 1951, “per danni immediati e diretti causati da atti non di combattimento, dolosi o colposi delle Forze armate alleate”: per capirci, la legge che risarciva le donne vittime di stupri da parte dei soldati marocchini». Fu l’unica nota positiva della vicenda. Per il resto, sofferenza, perdita. E oblio. Che sin da subito cadde (e fu fatto cadere) intorno alla storia (nel frattempo ogni responsabilità, anche di tipo penale, è prescritta), e di cui Barneschi ha avuto cognizione appena ha cominciato le sue ricerche. «La documentazione italiana è stata distrutta o sottratta con accurata precisione. In Italia qualunque fonte d’archivio consultabile presenta vuoti là dove sarebbe stato inevitabile trovare documentazione. Ne ho avuto conferma quando ho consultato l’archivio ufficiale di sinistri ferroviari: la rubrica dei fascicoli confermava la presenza della pratica, ma il faldone non c’era più. C’era il precedente, c’era il successivo, ma proprio quello no». E così il viaggio a Londra, presso il Public Record Office, l’archivio di Stato inglese: «Prima trovai la segretissima relazione ufficiale della commissione d’inchiesta nominata dai vertici alleati. E poi, soprattutto, la documentazione microfilmata e finalmente desecretata che chiarisce quanto accadde nella galleria».
Il treno 8017 partì da Napoli nel pomeriggio del 2 marzo. Era diretto a Bari. Anche quel giorno, come accadeva da mesi, quel treno, adibito al trasporto delle merci, divenne il mezzo su cui montavano diverse centinaia di persone che dalle zone urbane intendevano raggiungere l’entroterra per rifornirsi di provviste. Il servizio viaggiatori era residuale perché le linee, che erano sotto il controllo degli Alleati, venivano utilizzate soprattutto per esigenze belliche. L’unica maniera per viaggiare era ricorrere ai vagoni merci. I convogli perciò si muovevano ricolmi, oltre che di cose, anche di persone. E ogni superficie era utile per stare su quei treni: le locomotive, i carri, i tender, i predellini, l’imperiale delle carrozze, perfino i respingimenti. Postazioni quasi sempre scomode, spesso pericolose, talvolta letali.
L’8017 nella tarda serata del 2 marzo attraversava la linea Battipaglia-Potenza con un grosso carico di donne e di uomini. Alle 0.50 di venerdì 3 marzo lasciava la stazione di Balvano, sul confine tra la Campania e la Lucania. Avrebbe dovuto raggiungere la stazione di Bella-Muro in 20 minuti. Non ci arrivò mai.
Nella Galleria delle Armi, la più lunga della Battipaglia-Potenza con i suoi quasi 2 chilometri, dovette affrontare una pendenza mai incontrata prima: 14 per 1000. Poco dopo essere entrato nel tunnel, rallentò progressivamente. La potenza di trazione non era sufficiente. Per via della forte umidità, il treno cominciò a scivolare all’indietro. Furono azionati i freni. L’arresto fu definitivo. L’8017 era bloccato nella galleria. Solo i due carri finali ne rimanevano fuori: e questo significò la salvezza per chi si trovava in quelle vetture. Perché intanto nella galleria le persone già cominciavano a morire. A segnarne la sorte fu l’aria avvelenata dal monossido di carbonio che in breve occupò lo spazio lungo e non ventilato del tunnel. Lentamente, in silenziosa agonia, furono come ingessate dalla morte in gesti e pose del tutto naturali: chi con la sigaretta tra le dita, chi succhiando un uovo. Qualcuno si salvò dai vapori tossici grazie a una sciarpa o una mantellina. I superstiti furono meno di 100 su più di 700 passeggeri. Per gli altri, molti dei quali mai identificati, la vita finì in quella notte lucana.
Fu così per Francesco Arte, salito a Napoli: a Picerno la moglie attendeva lui e la nascita dell’ultima figlia. Fu così per i coniugi Natale Monti e Raffaella Barone, diretti alla caserma di Taranto perché non avevano avuto più notizie del figlio militare. Fu così per Rosario Amato, arruolato in marina, che da Torre del Greco tornava alla base tarantina. Fu così per Giuseppe e Antonietta Uccheddu, fratelli: la madre li attendeva a Muro Lucano. Fu così per il professor Vincenzo Jura, medico, docente universitario a Bari, dove si stava recando per una sessione di esami. Fu così per più di 600 persone.
Ma in questa Spoon River meridionale non giocò soltanto il gas velenoso. Anche l’imperizia dei soccorsi. Che arrivarono tardissimo, praticamente a mattina già fatta. E a tragedia si sommò tragedia, perché nel portare fuori il treno dalla galleria non si fece attenzione ai corpi ammassati intorno e chi non morì di gas morì, per quanto debilitato, sotto le rotaie. Il disastro non voleva smettere. Quella massa enorme di cadaveri e di corpi fu ammassata sul marciapiede della stazione di Balvano e sui pianali dei camion. Drammatica fu la testimonianza di Oreste Pacella, medico condotto di Balvano, resa a Famiglia Cristiana nel 1979: «Avevo cento fiale di adrenalina. Saltavo da una vettura all’altra, cercavo un cenno di vita nei riflessi oculari, poi facevo l’iniezione al cuore. Poi arrivarono le autorità da Potenza con una dottoressa americana. Allontanarono tutti, anche me. Ne avevo salvati 51, mi restavano 49 fiale, avrei potuto salvarne altri. Protestai. Mi cacciarono. E questo è il tormento che mi accompagna da quel giorno».
I militi inglesi avrebbero voluto bruciarli, quei cadaveri. Per fortuna non ebbe luogo lo scempio. Ma quelli erano i morti della miseria, da far sparire, da dimenticare in fretta. Morti scomodi: il Governo Badoglio non manifestò neppure il cordoglio per le vittime del disastro. Si procedette alla loro sepoltura in quattro fosse comuni, ricavate in un terreno accanto al cimitero di Balvano donato quel giorno stesso dal signor Francesco Di Carlo. E a un altro galantuomo, Salvatore Avventurato, si deve una cappella, unico segno che commemori tutte quelle morti. Perché non esistono targhe o monumenti per quella strage. Vale la pena ricordarli, soprattutto oggi, che si piange a Viareggio.