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lunedì 20 febbraio 2012

Challenging History 2012


Il progetto "Storie di uomini in guerra sulla Linea Gotica" sbarca a Londra!
Il 24 febbraio interverremo nell'evento Challenging History 2012 nell'University City od London.
Friday 24th February, City University London

11.00am
Panel Discussion 2 (NS)
Chair: Emma King
"As a society, how do we remember the past, and in what form?"
Emma King, Project Manager and representatives from the Sharing European Memories at School project, with colleagues from Aranzadi Society of Sciences (Spain), Massimo Turchi, Futura Spa (Italy), Stiftelsen Arkivet (Norway), Royal Armouries Museum (UK)

16.00pm
1. "Using the living diorama in the educational project ‘The war of the fathers narrated by sons" Massimo Turchi, Head of Storie di uomini in guerra sulla linea gotica (Stories of men at war on the Gothic line) educational project, Associazione Linea Gotica - Officina della memoria (Italy)

Il programma è scaricabile qui!

martedì 20 settembre 2011

Sulle tracce di mio padre





Da "Il Resto del Carlino" del 18 settembre 2011
"SULLE TRACCE DI MIO PADRE"
Amore nato sul fronte, poi anni di silenzio. 'Mia madre mi vietò di cercarlo finché fosse stata in vita'


di GIANNI LEONI
BOLOGNA
LUI si chiamava David ed era un soldato inglese. Lei si chiamava Fernanda e abitava sull’Appennino emiliano, in una vecchia casa di pietre e di calce. Si incontrarono nell'inverno del '44, sull'eco torbida di un catena di bombe. «Hello», disse lui. «Ciao», rispose lei. Un sorriso ricambiato, uno sguardo prolungato, eppoi un'ora d'amore, prima del sussurro di una domanda e dell'azzardo di una promessa senza tempo: 'Tornerai'? 'Tornerò'. E invece non tornò, il soldato David. Fernanda gli scrisse, ma il postino non suonò neppure una volta al battente della vecchia casa di pietre e di calce, e sul riposo di quel silenzio la guerra spense le sue voci di ordini, di scoppi e di morte.
ADESSO il frutto del fuggevole abbraccio nell'aria gelida di quella sera ha sessantacinque anni, si chiama Davide come il padre svanito oltre l'ultima curva, di cognome fa Perlini come la madre scomparsa nel 2005 e sotto i capelli grigi porta in giro un volto sereno e uno sguardo allegro perché dopo tante ricerche ha finalmente riagganciato il debole filo tra la mamma emiliana e il papa venuto da lontano.
«DA QUAND'ERO bimbo — spiega Davide — non ho pensato ad altro: era ancora vivo quel soldato? Ha saputo di avere un figlio in Italia? E ne ha avuti altri? Quelle domande mi hanno dato la forza di andare avanti. Nel tempo ho preso moglie, sono diventato padre, un povero padre senza padre. Un incubo. Spinto indietro dalla forza di un sogno: riempire quel vuoto. C'è voluto un lunghissimo viaggio tra burocrazia e incomprensioni, ma adesso sono giunto alla meta: una tomba nel cimiterino di Carluke, in Scozia, dove una lapide ricorda papa. E così anch'io ho finalmente un padre, ma anche una nuova, grande famiglia di cui non conoscevo l'esistenza: a mia moglie Emma e a mio figlio Alan, infatti, si sono aggiunti Heather, figlia di papa e quindi mia sorella acquisita e altri parenti».
E' felice, l'ex portalettere bolognese Davide Perlini mentre srotola la trama di un filmino d'amore e di guerra sbiadito dagli anni. «I miei genitori si conobbero a Lagaro di Castiglione dei Pepoli, sui monti di Bologna. C'era il fronte: da una parte gli Alleati, poco più in là i tedeschi. David faceva il portaordini ed era più giovane di mia madre, almeno credo». In quell'orizzonte incupito dall'odio e da un rincorrersi di nuvoloni di polvere da sparo, un militare inglese e una donna italiana scrissero la breve storia di un amore intenso, tra bombe e sospiri, brividi di paura e di piacere. «Quando la mamma si accorse di essere incinta il soldato era già partito. Di quell'incontro le rimasero solo i ricordi dell'unico uomo della sua vita, qualche foto e un indirizzo: David Jackson, 16 New Piace Trenton RD. Bermondsey London. Lei gli scrisse, una mano ignota firmò la ricevuta, ma nessuno rispose».
ANNI lontani, quando un figlio senza papa faceva scandalo. Anche nel borghetto sull'Appennino la notizia della gravidanza portò sorpresa e indignazione e spinse Fernanda nell'angolo delle svergognate. Incinta senza marito? Che disonore! E così, inseguita da un plotone di indici puntati la ragazza di Lagaro prese la via per Milano a fare la serva. «Davide il 'bastardino', e cioè io, era appena nato. Mi sistemarono in un orfanotrofio di Bologna, eravamo in 300, tutti senza genitori, tutti con tanta fame. Dalle camere sentivamo il profumo dei polli arrosto, ma solo quello: mai vista una coscia e neppure un'ala. A 15 anni la mamma mi riprese corrsé in una casa senza gioia. Piangeva sui ricordi, non sul futuro e un giorno mi strappò una promessa: 'Finché sono al mondo — chiese — non devi cercare tuo padre'. Ho rispettato
il patto, ma nel 2005, quando lei a 92 anni se n'è andata per sempre, ho deciso di muovermi anche perché mi sentivo solo, molto solo». Via, allora, con mattine, pomeriggi, sere e notti di veglia, telefonate e messaggi, trasferte e rientri, speranze, rimandi e brusche virate nella delusione. «Ho contattato testimoni, ex militari, paesani, parrocchie, giornali e archivi, ho battuto campagne, casolari, borghi, paeselli e città, ho preso parte a trasmissioni tv come 'Chi l'ha visto?' e 'Festa italiana', ho spedito centinaia di e mail a polizia, carabinieri, attori, politici, cantanti, uomini di sport e di cultura, ambasciate, consolati e diocesi, ma la risposta è venuta ogni volta con un replay da ritornello: 'Bella storia, davvero toccante, ma non posso aiutarla'. Tutti così: un coro. Parole e pacche sulle spalle. Nient'altro o quasi. Io, però, non mi sono arreso. E finalmente, un giorno, la svolta. Fondamentali, una geologa di Matera appassionata di ricerche e un giornalista italiano in Inghilterra. Da loro ho saputo che papa era morto nel '98 e che a Londra vive una sua figlia».
SI SPEGNE nella commozione, la voce di Davide Perlini, ma quando riprende vibra di nuova felicità.
«Ho conosciuto Heather, mia sorella. Che momento! Sono stato da lei per una settimana e ho incontrato altri parenti, tutti sorpresi, tutti entusiasti. Qualcuno è venuto a Bologna e così ho saputo che papa David era il quinto di tredici fratelli di una famiglia originaria della Scozia. Tante altre cose ho mi hanno raccontato di lui e quelle notizie mi hanno riempito il cuore. Adesso sono spossato di gioia, ma prima di rilassarmi ho voluto vivere per un attimo l'atmosfera di papa. E allora sono andato a Carluke, il suo paese in Scozia, mi sono raccolto davanti alla sua lapide, ho visto i luoghi che frequentava, ho respirato a pieni polmoni l'aria di casa, mi sono riempito gli occhi di paesaggi stupendi, gli stessi che aveva guardato lui».
FINISCE qui la cronaca di un amore in bianco e nero riportato all'attualità da un uomo sensibile, ostinato e paziente. David e Fernanda riposano nei rispettivi Paesi, lontani l'uno dall'altra, ma il frutto di quell'incontro ha voluto ricomporre, con un ultimo gesto piccolo e profondo, la trama di un'unione sbiadita dal tempo. «Accanto alla lapide di papa, a Carluke, c'è una pianta di biancospino. Ne ho strappato un rametto e l'ho messo sulla tomba della mamma, a Bologna, accanto a una sciarpa rossoblu di papa». Così, sessantasei anni dopo, il soldato inglese e la ragazza emiliana si sono ritrovati come nella tormentata sera di Lagaro quando lei chiese 'Tornerai?' e lui rispose 'Tornerò'. E' tornato, il soldato David, stavolta nella divisa pacifica, allegra e lieve di un ramoscello di biancospino.

venerdì 3 dicembre 2010

Davide Perlini: "Una storia di guerra"


Riceviamo da Davide Perlini l'articolo riguardo la sua storia pubblicato il 4 novembre 2010 su "Carluke Gazette"

A WARTIME LOVE STORY


By ROSS THOMSON
A CARLUKE family have been re-united with their Italian cousin after 65 years - with a helping hand from the Gazettel Jeanette Marshall contacted the Gazette after an emotional meeting with long lost Italian cousin Davide Perlini in Bologna five weeks ago.
The story dates all the way to 1944 when five brothers of the Jackson family of Carluke went to fight for their country during WWII.
Jeanette said: "My mother (Susie Jackson) had one sister and 11 brothers.
"Five brothers including my uncle David went off to fight for Britain during the war.
"While in Italy my uncle fell in love with an Italian woman Fernanda Perlini and she soon fell pregnant.
"However, by this time my uncle had been moved to the front and she didn't tell him.
"By 1946 the war had ended and my uncle David had started a new life but Fernanda had the baby who she called Davide.
"Unfortunately in those days having a child outside marriage was frowned upon and Davide was eventually put in an orphanage while his mother went to Milan returning for him 14 years later."
It wasn't until his mother died in 2005 that Davide began searching for his father, which began with reading the Gazette dated May 19 1944 which informed the Jackson family that all five brothers were stationed initially and were doing well.
After that Davide took his search all across Italian television and newspapers in a bid to find his father.
Unfortunately for his son David Jackson had since died and is buried in Bermondsey in London, where he settled after the hostilities ended.
But that didn't stop Davide from tracking down his long lost family and finally this year he made the big breakthrough.
Jeanette said: "After the war all of my mum's brothers moved to London with only my mum and aunt Mary remaining in Carluke:
"After a lot of tracking down Davide managed to get in contact with his half sister Heather and they met up in August this year."
It was while booking a short break in Italy for herself and partner Allan that Jeanette managed to finally meet her cousin and despite not understanding the Italian language she knew straightaway who it was she was talking to.
"We were looking at a number of places in Italy such as Milan, Venice and Rome," said Jeanette. "We eventually decided to go for a couple of days to Bologna.
"It was at that time that I received an e-mail from a member of the family to say that there was an Italian cousin who desperately wanted to meet me.
"Having swapped e-mails back in forth we agreed to meet.
"I wasn't sure how he would recognise me but he told me he would know straight away because of my eyes.
"The day before myself and Allan were sitting in a little pub having a glass of wine when all of a sudden I saw this man looking at me.
"He then came up and started pointing at my eyes and that's when I knew it was him.
"He was so emotional, which is very Italian, and couldn't believe that he had met more of his family. It is like something from a fairytale.
"It just goes to show that you should never give up if you are in a situation like that.
"We are hoping that he will come over to Scotland in the near future.
"He is such a nice person and I'm so glad that I have found him."

giovedì 18 novembre 2010

Finding Uncle Eugene


Tratto da "Pine Journal" (Minnesota) del 10 Novembre 2010 by Jana Peterson

Finding Uncle Eugene … and more


Over the last 14 years, Bob Anttila has been to Italy five times and made numerous friends while searching for the places his uncle Eugene Anttila spent the last days of his life, fighting the Germans in World War II.
By: Jana Peterson, Pine Journal


Bob Anttila always wanted to know more about his Uncle Eugene, who died fighting for the United States in the mountains of northern Italy during World War II. He's holding the photo of Eugene that appeared in a Life magazine feature on "The Forgotten Front" in the April 16, 1945 issue.
It all started with a photograph. For decades, an April 16, 1945 copy of Life magazine was one of the Anttila family’s most cherished items, as it contained the last photo ever taken of Pfc. Eugene W. Anttila.
Cloquet’s Bob Anttila never knew his Uncle Eugene. Although his middle name was taken from his uncle, Bob was only nine months old when Eugene died, fighting the Germans along the “Gothic Line” in the mountains of northern Italy as a part of the 88th Division, 349th Infantry Regiment.
The photograph in Life magazine showed Eugene, the lower half of his face blackened, leaning against the wall of one building while another soldier crouches nearby. A sign on another wall a few feet away and perpendicular to Eugene’s wall reads “Halt, About Face,” warning soldiers that the open area between the buildings is under enemy observation. Anyone who crossed could be picked off by the German machine gunners.
Growing up in Deer River, Bob Anttila was fascinated by his uncle’s story. At the same time, he was very aware of how much sorrow his death had brought to the family, especially his Grandma Hillina, who sat with the other Gold Star Mothers – whose sons had also paid the ultimate price in the war – each Memorial Day.
They didn’t know much about how or where Eugene had died. What little they did know (date and location), the Anttila family later discovered, was wrong.
It would be nearly 50 years before Eugene’s nephews began filling in the gaps in his story.
In 1994, Bob’s brother Gary Anttila wrote a letter to the newsletter for the 88th Division, asking if anyone had known Eugene.
Two weeks later he got a reply from Trego, Wis.
“All these years, Eugene’s platoon sergeant had been living 50 miles south of Superior,” Bob said. “He told us, ‘Yeah, I knew him. He was my machine gunner. And he died in my arms.’”
Clifford Nelson explained how, after a terrible bombardment of a ridge called Furcoli and the adjacent mountain knob called Monterumici, the men of the 4th Platoon, Company A, 1st Battalion, 349th Infantry Regiment, 88th Division and the rest of the battalion had stormed the ridge and mountain, where the Germans remained behind their defenses of minefields, mortars, caves and machine gun nests. The attack began at 10 p.m. April 15, 1945. Sometime during the next day Eugene was hit by machine-gun fire and pulled to the relative safety of the entrance to a hillside cave, where he died shortly thereafter, with Sgt. Nelson holding him.
Between them, the two brothers visited Nelson (now deceased) several times. On one visit, Nelson showed Bob a video he’d taken in Italy, when he’d gone, as Bob puts it, to settle “the ghosts of war” a couple years before.
“He said, ‘That’s where [Eugene] died, right there,’ and showed me the cave. Then he told me about these Italian people he’d met, and gave me their address,” Bob said.
Bob wrote a letter to those Italians, Erminio and Rita Lora of Bologna, and soon got an invitation to come visit. He traveled there in 1996, determined to walk the same ground his uncle had strode, climb the same hillsides he’d fought for and visit the cave where his life had ended, 51 years before.
Little did he know that this quest to learn more about the place his uncle died would not only answer all those questions, but ultimately find Bob an honorary citizen of the county where Eugene’s life ended in war.
Between 1996 and now, Bob has made five trips to Italy and has made even more friends. His story of his uncle has been published in an Italian book, and the story of his search for Eugene made the paper in Bologna, a city of more than 370,000 people.
Still, each of his stories starts with someone he met in Italy, who introduced him to other people, who introduced him to even more. Happily, they were all eager to help this American who wanted to know more about this shared history.
Meeting Erminio and Rita Lora led to an introduction to Marinella Caianiello, who was writing a book about the villagers in the mountains during the war and their experiences. (Caianiello ended her book with Bob’s chapter about his uncle, and with this quote from Bob, which she loved: “As a young child I remember my grandmother’s sorrow. As I grew up, I realized how many mothers suffered as she did after their sons on both sides died during that war.”)
Caianiello next introduced him to engineer/amateur historian Giancarlo Rivelli, who has been Bob’s best “sleuth-friend.” Rivelli has introduced him to others whose avocation is wartime history, and more who simply lived through it.
Still, even with local contacts, the task of “finding Uncle Eugene” wasn’t as simple as one might imagine. Lots had changed in 50 years, and memories aren’t always correct.
For example, while Eugene’s best wartime buddy, Dan Cornett of Florida, did vividly remember the events of that long-ago day, he was calling the mountain ridge by the name of the village where the attack had begun.
As well, when Bob first went to Italy, the cave itself was inaccessible, the land fenced off by the current landowner. He could see the cave from one angle, and stand 100 feet above it on a mountainside, but it wasn’t until six years later, in 2002, that Bob actually got to stand there.
Again, it happened with the help of his friends in Italy. Rivelli talked to the landowner, who met Bob and Caianiello at the gate and let them in.
However, the biggest challenge of all was finding the place where the cherished last photo was snapped. In the end, it took seven years to figure it out.
“Giancarlo found some photos that didn’t get in the magazine,” Anttila explained. “And the mountains don’t change. So he went in April [the same time of year the photos were originally taken] and looked at the mountains and the ridges. That was one way he narrowed down where the house was.”
It was April 16 of this year that Bob got the e-mail from Rivelli, telling him he’d found the wall.
“Eugene is not forgotten,” was the subject line, written on the anniversary of the veteran’s death.
The wall where Eugene was leaning in that Life magazine photo is now the inside wall of a bathroom. The building itself still stands in the village of Ca’ di Giulietta – about a mile from the cave as the crow flies – but the family who bought it had added a bathroom onto the back.
“That inner wall is 18 inches thick,” Bob said, chuckling as he hands over a photo of himself and Rivelli, standing in a modern-looking, white-tiled bathroom, holding a copy of the magazine photograph.
That moment was not the icing on the cake, however. That came later in the trip, when the residents of the small village held a reception for their American friend, attended by the current and former mayors, county commissioners and even the big city newspaper. A number of dignitaries, including Bob, gave speeches. Then they made him an honorary citizen of Monzuno, the county where his uncle spent the last months of his life and that his nephew has now gotten to know so well.
“These guys, now they’re friends,” Bob said, gesturing to the photos spread out across the table. “Maybe that’s a better thing out of all this than finding where he died. Maybe the best thing is finding all these wonderful people I met.”

mercoledì 20 ottobre 2010

Campo Tizzoro (San Marcello P.se): Ritorno alla SMI


Le riprese del documentario sulla battaglia della Maceglia si sono concluse sabato scorso con la visita alla ex-fabbrica di munizioni della SMI (Società Metallurgica Italiana) a Campo Tizzoro. Erano più di sessant'anni che gli ex-partigiani non entravano nello stabilimento. La visita ai bunker sotterranei della fabberica è stata molto emozionante.


La targa a Campo Tizzoro

Due articoli tratti dal Tirreno - Pistoia del 6 ottobre 2010 riguardanti la visita dei nipoti dell'ing. Kurt Kayser a San Marcello P.se

«Non sapevamo che lo zio era un eroe»
Tornerà nel 2011 la famiglia dello "Schindler" di Campo Tizzoro

di A.S.
SAN MARCELLO. Hanno lasciato ieri mattina la Montagna pistoiese, ma quasi certamente torneranno a San Marcello nel 2011, in occasione del centenario della nascita della Smi di Campo Tizzoro. Si tratta di Jeans Kaiser, di sua moglie Mae e dei figli Tina e Led che, lunedì, nella sala consiliare del Comune, hanno ricevuto dal sindaco Carla Strufaldi una targa con lo stemma del comune di San Marcello in memoria di Kurt Kaiser (di cui Jeans è bisnipote), che durante l'occupazione nazista, quando era ingegnere capo dello stabilimento Smi, salvò decine di operai, entrati a far parte della Resistenza, dalla fucilazione. L'ingegnere tedesco fu anche colui che salvò dalla distruzione certa l'intero stabilimento, perché le truppe tedesche in ritirata non volevano lasciare agli alleati anglo-americani una cosi ghiotta fabbrica di armi a loro disposizione. In Italia la storia di Kaiser ha iniziato ad essere conosciuta grazie ad un libro di Daniele Amicarella, ma in Germania è stata una ricercatrice pistoiese, che lavora là, a mettere un'inserzione sul giornale per conoscere i parenti di Kurt Kaiser. «Noi non sapevamo nulla - ha detto Jens Kaiser ricevendo la targa dalla mani del sindaco - che il nostro parente fece tutto questo. Lo abbiamo saputo solo da due settimane e la Tv tedesca tra poco girerà un documentario su nostro zio. Sono veramente emozionato di questa accoglienza. So che era molto riservato e non amava mai parlare dei fatti inerenti alla Seconda guerra mondiale, per questo motivo nessuno in famiglia ha mai saputo nulla. Sono anche venuto a conoscenza e sempre da poco, che una targa con il nome di mio zio è apposta a Campo Tizzoro, accanto ai vecchi rifugi anti aerei». Targa che l'amministrazione comunale di San Marcello collocò il 25 Aprile del 2009. «Tra un anno ricorreranno i cento anni della nascita della Smi - ha spiegato a Jens Kaiser al termine della cerimonia il sindaco Strufaldi - vorrei che tu e tutta la tua famiglia foste presenti per quell'occasione, ci farebbe immensamente piacere».


Salvò decine di operai della Smi
Targa al pronipote di Kayser: non sapeva dell'illustre bisnonno

di Roberta Ripaoni
S.MARCELLO. Che effetto fa scoprire improvvisamente che tuo bisnonno è stato un eroe e che ha salvato la vita a centinaia di persone? Ecco una delle tante storie della Resistenza, delle quali la nostra montagna è ricca, che tornano dal passato, riaffacciandosi nel presente, forse come monito alla memoria. L'ignaro, fino a poco tempo fa, protagonista è Jens Kayser, bisnipote di Kurt Kayser, un ingegnere tedesco che, durante la seconda guerra mondiale, fu mandato sui monti sanmarcellini a controllare la produzione bellica della Smi di Campotizzoro e che, servendosi della propria autorità, mise in salvo un gran numero di civili condannati a fucilazione. E chissà qual'è stato anche lo stupore dell'amministrazione di San Marcello, quando è venuta a sapere, da passaraparola, che un parente del cosiddetto " Il Kaiser" si trovava proprio da queste parti, spinto dall'annuncio pubblicato su un giornale tedesco. «E' una vicenda curiosa - spiega Luisa Soldati, vicesindaco di San Marcello - appena ci hanno informato che un nipote di Kurt Kayser era qui, abbiamo voluto incontrarlo e rendere il dovuto omaggio alla memoria dell'ingegnere, scomparso venti anni fa, con una cerimonia nella sala consiliare e la consegna di un piatto con lo stemma comunale, in segno di riconoscimento alla grande umanità e al coraggio di questo personaggio». Una vicenda a molti nota, quella de "Il Kaiser", raccontata anche in un libro da Daniele Amicarella, ma che il bisnipote dell'ingegnere non conosceva ed ha scoperto solo alcuni mesi fa. «Il tutto è nato da un annuncio di una giornalista italiana, che sta facendo alcune ricerche sulla resistenza e che proprio in Germania stava cercando i parenti di Kurt Kayser - continua Soldati - il bisnipote, ricostruendo la vicenda e incuriosito dalla storia, è venuto in Italia ed è arrivato fino qui, a Campotizzoro». Un ruolo insospettabile quello dell'ingegnere Kayser, che non era uomo d'armi e che silenziosamente è diventato una sorta di eroe per tutta la montagna pistoiese. «La Smi era una fabbrica di munizioni, allo stesso tempo, vero e proprio laboratorio della Resistenza - spiega il vicesindaco - Kayser era stato mandato per visionare la produzione, ma, avvalendosi del proprio ruolo, ha aiutato di nascosto le cellule della Resistenza ed ha messo al sicuro la vita di tante persone, fingendo ordini o speciali lasciapassare per gli operai e non solo. In questo modo ha contribuito alla lotta partigiana e ha preservato dalla distruzione un realtà industriale, fonte importante di lavoro locale». Una sorta di Oscar Schindler della montagna pistoiese, insomma, al quale il comune di San Marcello ha voluto rendere tributo. «Kurt Kayser era già venuto in Italia agli inizi degli anni 80, raccontando la sua storia - conclude Soldati - ma allora era mancata l'occasione per un riconoscimento da parte del nostro territorio. Lo abbiamo fatto adesso, tramite il bisnipote. E' stata una circostanza commovente, il ricordo di quella storia è ancora forte e presente in montagna».

lunedì 11 ottobre 2010

Budapest (Ungheria), 25 ottobre 2010, convegno: "La fede in una libera Italia - La diplomazia italiana e l'Ungheria"

Abbiamo ricevuto la notizia di questo convegno da Eva Framarino che abbiamo conosciuto alcuni giorni fa. Lei è la nipote di Attilio Perrone Capano (vice console dell'ambasciata italiana in Ungheria) che il 2 gennaio 1945, mentre tentata di passare il fronte (era partito da Roncoscaglia) morì assiderato in località Arca di Canevare di Fanano. Siamo impegnati in un lavoro di ricerca di documentazione locale per aiutarla a comporre, il più completamente possibile, il puzzle delle ultime ore di Attilio.


L'Istituto Italiano di Cultura di Budapest
l'Istituto di Italianistica della Facoltà di Lettere dell'Università Eötvös Loránd
e il Comitato di Budapest della Società Dante Alighieri
hanno il piacere di invitare la S.V. al seminario
"La fede in una libera Italia" - La diplomazia italiana e l'Ungheria

lunedì 25 ottobre 2010, ore 15,00
Sala Conferenze dell'Istituto Italiano di Cultura
(1088 Budapest, Bródy S. u. 8. - Tel.: 483-2040)

Indirizzi di saluto:
Salvatore Ettorre (Direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Budapest)

Interverranno:
Elena Dundovich (Università di Pisa) - La politica estera italiana dalla caduta di Mussolini alla liberazione, 1943-1945
Eva Framarino (Torino) - Un pugno di farina d'Ungheria

Intervallo

Ilona Fried (Università degli Studi Eötvös Loránd) - Memoriali sulla Diplomazia Italiana di Budapest: Carlo de Ferrariis Salzano, Antonio Widmar e altri
Fabrizia de Ferrariis Pratesi (Roma) - Ricordi d'infanzia e scuola di vita
Stefano Caccialupi (Roma) - Ricordi


Durante la manifestazione verrà assicurata la traduzione simultanea

mercoledì 15 settembre 2010

"Accanto alla tigre", incontro con Lorenzo Pavolini


La Tigre di Lorenzo Pavolini
pubblicata da Enzo Ciampi il giorno venerdì 3 settembre 2010 alle ore 17.40
“Accanto alla tigre” di Lorenzo Pavolini


Ci sono libri che, nel momento in cui compaiono sugli scaffali, tu sai che dovrai leggerli. Per me “Accanto alla tigre”, di Lorenzo Pavolini è stato uno di quei libri.
Il motivo, per quel che importa, possono intuirlo coloro che mi conoscono ed hanno letto “Mio cugino il fascista”. Non tanto perché la figura di Alessandro Pavolini compare sullo sfondo, in alcune scene, quanto perché il protagonista Alex è molto “pavoliniano”, nell’essere interprete di quel fascismo, nel suo modo di parlare e di pensare, ed anche nel modo di affrontare la morte.
A ciò si aggiunga il fatto che all’epoca, nel 2005 - attratto come sono dalle vite dei grandi perdenti - ero seriamente intenzionato a scrivere una biografia del gerarca morto a Dongo nell’aprile del 1945. Non un romanzo biografico o una biografia romanzata, bensì una “vera” biografia. Pur conoscendone una abbastanza recente (e poco convincente) di A.Petacco.
Per fortuna non l’ho fatto.
Non sapevo, confesso, che Lorenzo Pavolini fosse il nipote di Alessandro; e non potevo sapere che pochi anni dopo ne avrebbe scritto. Ma ora questo libro c’è, ed anche questa è una fortuna; perché l’Autore ha deciso, a un certo punto della sua vita, di guardare negli occhi la tigre che gli camminava accanto da sempre, la stessa che suo nonno aveva cavalcato fino in fondo.Fino all’ultimo giorno.

Alessandro Pavolini era la RSI. La impersonava più di Mussolini stesso, che dopo il 25 luglio aveva dichiarato la propria morte politica. Di questa vicenda, la storiografia ci aveva già detto molto. Pavolini era l’uomo che aveva condotto il caotico Congresso di Verona, nell’autunno del 1943, riaffermando la fedeltà all’alleato nazista, confermando lo status di nemico del popolo ebraico, legittimando la vendetta retroattiva nei confronti di chi aveva firmato l’Ordine del Giorno Grandi. Era l’uomo che aveva voluto e ottenuto con determinazione la fucilazione di Ciano, al quale doveva la sua carriera politica, assumendosi la responsabilità di non trasmettere a Mussolini le domande di grazia dei cinque giustiziandi. Era l’uomo che aveva voluto rimettere in divisa gli iscritti al partito, creando le Brigate nere, perfettamente conscio del fatto che la sconfitta era imminente, e che i tedeschi avrebbero riconosciuto ai repubblichini il compito di meri gendarmi delle retrovie, esecutori delle repressioni antipartigiane; forse consapevole anche che a guerra finita, ciò avrebbe comportato la condanna a morte di molti miliziani per il solo fatto di avere indossato quella divisa. Era l’uomo che aveva vagheggiato, negli ultimi giorni, l’estrema resistenza nel “Ridotto della Valtellina”, accanto alle ceneri di Dante. Era, infine, l’uomo catturato dai partigiani ferito e con le armi in pugno, unico nel gruppo fucilato sul lungolago di Dongo.
Questo era il Pavolini Alessandro nel suo consolidato clichè un po’ tetro, un po’ romantico, un po’ robespierriano di fanatico e integralista difensore del regime morente.
Suo nipote Lorenzo, fino al momento in cui non ha guardato negli occhi la tigre, aveva non dimenticato, ma rimosso quella figura, quasi volesse affidarla ad un impossibile oblio.

La sua narrazione dà conto in pieno dell’accettazione di tale impossibilità, e di come si sia imposta, giorno dopo giorno, la ricerca di una verità più profonda, quale che fosse.
Scritte sui muri di neofascisti nostrani, inneggianti al nonno, e il primo impulso di cancellarle; le fotografie dei cadaveri appesi a testa in giù a Piazzale Loreto; spezzoni di ricordi di famiglia, o di testimonianze spurie e incomplete; lettere; conversazioni con chiunque fosse in grado di dire qualcosa in più su quell’epoca e su quegli uomini. Visite fallite al cimitero milanese dove sono sepolti i repubblichini morti nella primavera del ’45, compreso Alessandro; indizi e segnali fra i più disparati, spesso descritti con ironia, tutti convergenti verso gli occhi della tigre.
E alla base di tutto, le domande inevitabili: chi era Alessandro Pavolini? Cosa ha spinto un intellettuale gentile e raffinato, nonché scrittore di talento, a cavalcare la tigre? Qual’era il fascismo in cui credeva? Quali erano i suoi valori di uomo, al di fuori della politica? Qual’era il suo reale rapporto con la violenza, la guerra, la vendetta politica? Qual’era la sua intima percezione della vita e della morte?
Le risposte, spesso mediate e sfumate, mai apodittiche, le lascio volentieri alla lettura di questa narrazione, permettendo al lettore di conservare intatto il valore del percorso e condividere con l’Autore il senso della scoperta, che è la cosa più importante.

In quest’opera la scrittura cresce man mano che si procede, che si conosce, che si scopre.
Sono convinto che sia un risultato voluto, perché questa crescita corrisponde al superamento progressivo delle diffidenze e delle incertezze iniziali nell’intraprendere un cammino per molti anni rinviato .
Le brevi riflessioni sul senso della Storia, ben distribuite nell’opera, acquistano di sempre maggiore incisività e profondità, raggiungendo in alcuni passaggi una bellezza letteraria che non contrasta con lo stile asciutto e con la messa al bando di ogni possibile indulgenza al sentimentalismo familistico.
Quando racconta di sé, infatti, Lorenzo Pavolini sa ricorrere perfino all’understatment o all’autoironia; ma quando appare e ricompare, sempre meglio definita, la figura del nonno, le corde sono quelle di una letteratura vera, importante. E il quadro di insieme alla fine si ricompone sempre, con tutta la tragicità di un’epoca difficile, sanguinosa, drammatica e, soprattutto, non abbastanza conosciuta.

Fra le persone cui Lorenzo si rivolge per capire aspetti non banali del regime cui il nonno aveva devoluto anima e corpo, c’è anche Antonio Pennacchi. E’ singolare che nell’edizione dello “Strega” di quest’anno si siano ritrovati entrambi fra i finalisti, con due lavori molto diversi che però fanno riferimento alla stessa epoca. Segno che le riflessioni sul fascismo, un po’ sclerotizzate nella storiografia ufficiale, tornano centrali nella narrativa, sulla spinta di molte domande tuttora inevase, o neppure formulate.

Vincenzo Ciampi

Lorenzo Pavolini, “Accanto alla tigre” – Galleria Fandango, 2010. Pgg. 243, euro 16,50

martedì 7 settembre 2010

Davide Perlini: «A Londra con mia sorella in nome di papà»


Dal Resto del Carlino - Bologna, del 4 settembre 2010

«A Londra con mia sorella in nome di papà»
La vittoria di Davide Perlini

di GIANNI LEONI

—LAGARO (Castiglione dei Pepoli)—
UN URLO: «Davide!». E subito la risposta: «Heather!». Poi, gli occhi negli occhi, le mani nelle mani, un abbraccio senza fine e la morsa di un’emozione che portava alle lacrime. «Sono sfinito dalla gioia», sintetizza Davide Perlini appena rientrato da Londra. E del resto, un momento così lo aspettava dai giorni dell’infanzia, quando insisteva per avere notizie del padre, e la mamma si limitava ogni volta a ribadire che «è un militare inglese, non so dove si trova e comunque finché io sono al mondo non devi cercarlo».
LA MAMMA se n’è andata da tempo e Davide Perlini, fin dal giorno dopo e da allora un minuto dopo l’altro, ha dedicato tutta l’esistenza al fantasma di quell’uomo, David Jackson, arrivato a Lagaro con la divisa da portaordini durante la Seconda guerra mondiale e ripartito a bombe appena mute dopo una breve parentesi d’amore con la giovane Fernanda Perlini. Lei rimase incinta e lui divenne un’ombra. Dov’era finito? E perché non aveva mai risposto alla lettera dell’innamorata? Un’ossessione, per Davide, quelle domande e tante altre. Via, allora, con le ricerche tra parrocchie e ministeri, uffici e testimoni, giornali, radio e tv, eppoi di porta in porta, con viaggi, rientri e nuove partenze.
POI, a 65 anni, finalmente una traccia dal nulla. «Ho scoperto che mio padre era il quinto di otto fratelli, che è morto, ma che a Londra aveva una figlia, Heather — racconta Perlini —. L’ho contattata e ci siamo conosciuti. Tra la folla dell’aeroporto ho sentito un urlo: ‘David!’. L’ho vista e ho riconosciuto, in lei, il padre che avevo cercato tanto. E’ stata un’emozione sconvolgente per entrambi. Le ho parlato di me, della mia vita di padre
senza padre e lei mi ha raccontato del marito Robert, appassionatissimo di moto italiane, e della grande sorpresa di avere un fratello italiano. Con mia moglie Emma sono stato alcuni giorni ospiti a casa di Heather. Presto verrà a trovarmi a Bologna e io l’accompagnerò a Lagaro, dove nostro padre
conobbe la mamma».
LA NOTIZIA dell’incontro tra l’inglese e l’italiano ha preso spinta e di voce in voce ha fatto subito molta strada. Le famiglie dei fratelli di David Jackson sono sparse in Spagna, in Canada, in altri Paesi, e tutti i componenti sono stati sorpresi e contenti di scoprire di avere un cugino. «Spero di conoscere tutti, prima o poi. In ogni caso ho già in programma un nuovo viaggio da mia sorella. Insieme andremo in Scozia, nel paese dov’è nato papà e dove ancora si trova la sua casa. E intanto, in un certo senso, sto vicino a mio padre. Heather mi ha regalato alcuni suoi oggetti: un distintivo, un basco, due sciarpe e una cintura. Li aveva in un cassetto e non li ha mai lavati e così è ancora possibile cogliere l’odore di chi li portava e quindi toccare la sua anima. Adesso sono contento. Qui si ferma il mio cammino. Ho realizzato il mio unico, grande sogno: quello di avere un padre».

domenica 8 agosto 2010

Bimbi sulla Linea Gotica

Da Repubblica - Bologna del 6 agosto 2010

Bimbi sulla Linea Gotica
di Antonella Cardone


«La memoria talvolta è difficile da conquistare, perché chi ha vissuto avvenimenti atroci li ha introiettati in modo così profondo, che solo parlarne produce dolore», racconta il soldato inglese. «Si può sempre ricominciare con volontà, forza e sostegno reciproco. Non bisogna mai abbandonare la speranza in un futuro migliore», aggiunge l'emigrato che, vent'anni dopo, ha sposato una tedesca. Per mesi i ragazzi delle terze medie di Vado e Monzuno hanno ascoltato parole come queste, nelle storie di chi la guerra l'ha vissuta, sull'uno o sull'altro fronte della Linea Gotica. Hanno sentito le parole dei figli e dei nipoti del conflitto, hanno sfiorato i piccoli e grandi traumi dei ritorni in famiglia, delle faticose ricostruzioni di nuovi equilibri. Poi hanno preso carta e penna, e hanno scritto la sceneggiatura di un fumetto. E' nato così «La guerra dei padri raccontata ai figli - La complessità della memoria», che ripercorre la storia di Monte Sole attraverso i racconti di coloro che ne furono artefici volontari o involontari. Con il contributo di Emil Banca, il Gruppo Studi Savena Setta Sambro lo ha pubblicato, e ora prepara la traduzione inglese affinchè la storia possa arrivare anche in altri paesi. Il progetto è stato coordinato da Elisabetta Tosti, Massimo Turchi e da Sergio Tisselli per la fase artistica. «Con l' entusiasmo dei loro tredici anni e con una delicatezza inaspettatai ragazzi si sono avvicinati alle memorie personali e intime di chi ha vissuto quegli eventi come soldato alleato o come figlio di padri che hanno fatto scelte differenti o di madri la cui esistenza è stata segnata dalla guerra». «Abbiamo capito che in guerra non ci sono né vinti né vincitori, ma solo profonde ferite da rimarginare», raccontano gli studenti. E così, con la leggerezza che solo il fumetto riesce dare, con gli occhi dei ragazzi di 13 anni, si rivive la storia di Udo Sdrer, avvocato che difende i diritti degli immigrati, è tornato più voltea Monte Sole, per chiedere scusa dei delitti del padre, un colonnello delle SS di cui non ha voluto prendere il cognome. Si riascolta: «Sei un figlio della guerra, ma non te ne devi vergognare», quel che ripeteva mamma Fernanda a Davide Perlini, il quale per 65 anni ha tenuto fede alla promessa fatta alla donna di non cercare mai il padre, un militare scozzese. Scomparsa lei, lo ha ritrovato pochi anni fa. «In guerra si è molto giovani, non si provano sentimenti ma si è costantemente impegnati nell'azione. Quindi grazie per avermi fatto ricordare - a parlare è il soldato Desmond Bruges rivolto ai ragazzi di Vado e Monzuno - perché la luce della memoria deve sempre rimanere accesa».

lunedì 19 luglio 2010

Monzuno (Bologna), 15 luglio: Robert Eugene Anttila cittadino di Monzuno


Da Il Resto del Carlino - Bologna" del 17 luglio 2010
di FRANCESCO FABBRIANI

MONZUNO - TOCCANTE CERIMONIA IN MEMORIA DI UN SOLDATO USA
Cadde per ultimo sulla Linea Gotica

Il nipote ritira il premio e piange


di FRANCESCO FABBRIANI
—MONZUNO— «QUANDO guardo le vostre facce felici mi dico che Eugene non è morto per niente. E’ morto anche per voi». Con queste parole Robert Eugene Anttila ha accolto la cittadinanza onoraria concessagli dal Comune di Monzuno. La cittadina ha voluto riconoscere il debito, non solo affettivo, con la famiglia Anttila, il cui componente Eugene, in forza all’esercito statunitense, perse la vita nell’aprile del ’45 nello scontro che precedette il crollo della Linea Gotica e la presa di Bologna da parte degli alleati. Robert, per rimarcare il piacere di essere stato inserito nell’elenco dei cittadini di Monzuno, si è subito ribattezzato ‘Roberto’. Il neo cittadino monzunese è il nipote di Eugene. Racconta che la sua vita è stata segnata dalla perdita dello zio e soprattutto dall’aver assistito e partecipato all’inconsolabile dolore della nonna. Lui stesso nel corso della cerimonio è scoppiato in lacrime.
ROBERT, per saperne di più della fine dello zio, vent’anni fa partì dal Nord Minnesota senza alcuna preparazione e si presentò a Monzuno. Superando le difficoltà della lingua, finì per incontrare le persone che lo hanno aiutato ad approfondire la storia dello zio e a individuare il luogo dove è rimasta ferito e dove fu ricoverato. «Il battaglione di Eugene Anttila — si legge nella ricerca storica di Giancarlo Rivelli, fra i più attivi nell’aiutare Robert — dopo aver resistito ad uno sbarramento di mortai e a un contrattacco tedesco accompagnato da altissime grida, conquistò una posizione sicura sulla cresta di Furcoli, nelle vicinanze di Monzuno, alle 10.30 del 16 aprile 1945.
NEL COMBATTIMENTO Engene rimase gravemente ferito all’addome da una raffica di mitragliatrice. Trascinato dai commilitoni al riparo di una grotta ai piedi di Furcoli morì dopo alcuni minuti fra le braccia del sergente Clifford Nelson. Venne poi seppellito nel cimitero militare di Pietramala e nel dopoguerra trasferito in madre patria. L’attestato di cittadinanza onoraria è stato consegnato a Roberto dal sindaco di Monzuno, Marco Mastacchi, con la presenza dell’ex sindaco Andrea Marchi che ha partecipato, quando ricopriva la carica di primo cittadino, alle ricerche di Robert a Monzuno.

Il resoconto fotografico della giornata

lunedì 17 maggio 2010

A Sommocolonia e Barga per vedere i luoghi dove il padre ha combattuto


Dal Giornale di Barga riportiamo l'articolo del 12 maggio 2010
A Sommocolonia e Barga per vedere i luoghi dove il padre ha combattuto

Sta nascendo un nuovo turismo che porta gente nella nostra terra grazie all'attrazione storica di Sommocolonia? Pare proprio di sì… dopo la visita nei mesi scorsi dei soldati di Camp Darby, stamani un altro arrivo che conferma il crescente interesse e la nascita di un vero e proprio fenomeno turistico-culturale legato ai luoghi della storica battaglia di Sommocolonia che l'Amministrazione Comunale di Barga ha da tempo deciso di valorizzare.
Stamattina è giunto prima a Barga e poi a Sommocolonia il dott. James Pratt, figlio del capitano Charles Pratt ufficiale afroamericano che a Barga giunse con il II° Battaglione/366th Reggimento aggregato alla 92ma Divisione Buffalo. Il dott. Pratt è giunto a Barga accompagnato dalla moglie Mildred e dai figli Charles (che si chiama come il nonno) e Eleanor. Con loro la giornalista e appassionata di tematiche inerenti le divisioni segregate dell’US Army durante la II Guerra Mondiale, Francesca D’Anna, il col. Vittorio Biondi ed i figuranti i della Associazione Linea Gotica della Lucchesia che peraltro grazie al loro impegno tanto stanno facendo per alimentare l’attenzione, soprattutto in America, verso i luoghi protagonisti della storica battaglia del 1944. Quei luoghi dove ha combattuto anche il padre del dsott. Pratt novembre del '44 all'aprile del 1945.
Il “2nd Battallion” è stato in particolare impegnato nella difesa di Barga e di Sommocolonia e aveva il suo quartier generale all'Albergo Libano.
Il gruppo è stato ricevuto e salutato dal Sindaco di Barga e successivamente si è recato a Sommocolonia per una visita al Museo e ai luoghi della Battaglia ricevuto dai pochi ma agguerritissimi componenti del Comitato che si occupa del museo e della valorizzazione storica di Sommocolonia .
Nel pomeriggio la visita è proseguita prima a Gallicano e poi a Borgo a Mozzano, dove si è svolto un sopralluogo alle fortificazioni della Linea Gotica.

martedì 6 aprile 2010

Strage di Sant'Anna di Stazzema: cronaca di un incontro, 66 anni dopo

Da Nazareno Giusti riceviamo questo articolo che pubblichiamo. Grazie Nazareno!

Strage di Sant'Anna di Stazzema: cronaca di un incontro, 66 anni dopo
Cultura e Spettacolo : Fatti & personaggi

del 28/03/2010 di Nazareno Giusti

SANT'ANNA DI STAZZEMA, 28 marzo - Enio Mancini è un reduce. Un testimone. Instancabile continua la sua battaglia per la memoria. Per far sì che non si dimentichi cosa successe il 12 agosto 1944 a Sant'Anna di Stazzema. Il giorno del massacro di cinquecentosessanta vittime innocenti, delle quali circa centocinquanta erano bambini sotto i quattordici anni.
Lui, all'alba di quel maledetto giorno, non aveva ancora sette anni ma si ricorda tutto, perfettamente. Non si stanca di raccontarlo anche se per lui è sempre un grande dolore. Pure venerdì scorso, a Roma, ha ripercorso quelle tragiche ore davanti alle telecamere dei giornalisti mentre aspettava l'arrivo di una persona speciale.
Quando qualcuno gli si è avvicinato sussurrandogli “Il ragazzo è arrivato” le sue labbra si sono serrate e per un attimo hanno tremato mentre guardava nella direzione indicatagli.
“Il ragazzo” si chiama Jochen Kirwell, è una montagna di un metro e novanta, ha 27 anni e studia Teologia a Magonza. Suo nonno Peter è il soldato delle SS che anziché uccidere Enio e la sua famiglia quel 12 agosto gli salvò la vita.
Si osservano e poi si avvicinano.
Tutt'intorno centinai di occhi li osservano, mormorii, applausi, flash. Forse ci vorrebbe più intimità, forse ci vorrebbero solo loro due. Ma non ha importanza. Si stringono la mano come fanno due persone educate. C'è un po' di imbarazzo.
Poi si guardano negli occhi e in un attimo si dicono tutto. Così, senza parole. In certi momenti non servono. Allora si abbracciano forte.
Enio e Jochen devono aver passato tutta la notte a pensare a quel attimo. A metà dello scorso febbraio Enio ha ricevuto una telefonata sconvolgente: “Mio nonno è il tedesco che ti ha salvato la vita nel bosco di Sant'Anna”.
“Non potevo crederci - confessa Mancini - Io ho sempre cercato quel ragazzo che ci salvò ed ora è una grande gioia poter abbracciare suo nipote. Quell'episodio è un barlume di umanità in tanta cattiveria: quando è rimasto solo quel soldato ha scelto di risparmiarci rischiando anche la vita per aver disubbidito agli ordini ed io questo non l'ho mai dimenticato”.
Jochen lo ascolta commosso.
“E' stata mia nonna - spiega - a raccontarmi la storia poco tempo fa, io non sapevo nulla. Suo nonno Peter, che all'epoca dei fatti aveva 17 anni, aveva ricevuto l'ordine di riportare in paese un gruppo di persone che erano state viste fuggire in un bosco, dopo averle trovate fece tornare in paese i suoi compagni dicendo loro che avrebbe eseguito lui l'ordine. Ma invece di sparare sui corpi di quelle persone sparò al cielo.
Quando tornò in paese informò il suo superiore che aveva fucilato il gruppo.
“Su internet avevo letto la testimonianza di Mancini e mi sono accorto che coincideva con quella del nonno. Ho deciso quindi di mettermi in contatto con lui perché la sua storia era diventata anche la mia”.
Poi, insieme, sono entrati nell'auditorium del Goethe Institute dove, alla presenza del vice ambasciatore tedesco in Italia, Friedrich Dauble, Mancini e Enrico Pieri (un altro superstite impegnato da tempo nel confronto con la comunità tedesca, presidente dell'Associazione martiri di Sant'Anna) hanno ricevuto la Medaglia dell'ordine al merito della Repubblica federale di Germania. Dopo la cerimonia è stato proiettato il docu-film “E poi venne il silenzio” (di Irish Braschi) che ricostruisce l'eccidio con toccanti interviste.
Nel buio della sala le immagini si specchiavano negli occhi pieni di lacrime dei vecchi bambini che in quel giorno di 66 anni fa videro in faccia il Male.

sabato 27 marzo 2010

La Ss lo salvò dalla strage


Dal Corriere fiorentino del 26 marzo 2010
La Ss lo salvò dalla strage
Oggi abbraccia il nipote

Enio Mancini aveva 7 anni e non ha mai dimenticato quel momento. Dopo 66 anni ha abbracciato Jochen Kirwel, nipote di quel militare «umano», Peter Bonzelet

Un barlume di luce nelle tenebre profonde della strage di Sant’Anna di Stazzema, 560 italiani - in maggioranza bambini, donne e anziani - massacrati dai nazisti. Un soldato delle Ss che disobbedisce agli ordini e spara in aria anzichè sul gruppo di persone che doveva uccidere. Tra di loro un bimbo di sette anni, Enio Mancini, che non ha mai dimenticato quel momento e che oggi, 66 anni dopo quel tragico 12 agosto 1944, ha abbracciato Jochen Kirwel, nipote di quel militare «umano», Peter Bonzelet, morto nel 1990.
L’incontro è avvenuto al Goethe Institute di Roma, dove il vice ambasciatore tedesco in Italia, Friedrich Dauble, ha consegnato a Mancini e ad Enrico Pieri, presidente dell’Associazione martiri di Sant’Anna, la Medaglia dell’ordine al merito della Repubblica federale di Germania. «Quando Jochen mi ha telefonato un mese fa - racconta emozionato Mancini - sono rimasto choccato, senza parole, non volevo crederci. Io ho sempre cercato quel giovane soldato tedesco (nel ’44 Bonzelet aveva soltanto 17 anni) quando andavo in Germania, ma senza risultati: ora posso abbracciare suo nipote ed è una grande gioia». Quell’episodio, ricorda, «mi ha fatto riappacificare con i tedeschi, non li ho più visti tutti come assassini. In tanta cattiveria c’era anche chi ha dimostrato umanità: quando è rimasto solo, quel soldato ha scelto di risparmiarci, rischiando anche la vita per aver disubbidito agli ordini».
Il giovane Bonzelet insieme ad altre Ss aveva ricevuto l’ordine di riportare in paese un gruppo di persone che erano state viste fuggire in un bosco per ucciderle. I soldati inseguirono i fuggitivi e li trovarono. A quel punto, rievoca Jochen Kirwel, «mio nonno prese una decisione: fece tornare in paese i suoi compagni e disse loro che avrebbe eseguito subito l’ordine da solo nel bosco. Non appena le altre Ss si furono allontanate, cercò di far capire al gruppo di italiani che dovevano nascondersi e rimanere in silenzio, quindi sparò diverse volte in aria con il mitra, sapendo che gli spari si sarebbero uditi nel paese. Quando mio nonno tornò in paese informò il suo superiore che aveva fucilato il gruppo». Questa storia, spiega il giovane, studente di Teologia a Magonza, «me l’ha raccontata mia nonna prima di morire e mi aveva profondamente colpito. Poi, su internet, ho letto la testimonianza di Mancini e mi sono accorto che coincideva con quella del nonno. Ho deciso quindi di mettermi in contatto con lui perchè la sua storia era diventata anche la mia». Il nonno, aggiunge, «ha sempre parlato poco del periodo che trascorse tra le Ss, le immagini della guerra l’hanno perseguitato fino alla morte, non se ne è mai liberato. Se fosse qui - dice rivolto a Mancini - sono sicuro che lui vorrebbe porgerle la mano in segno di pace».

26 marzo 2010

giovedì 25 marzo 2010

La strage di Sant'Anna di Stazzema. Una telefonata dalla Germania: “Mio nonno è l’SS che ti salvò la vita”


Dal Il Tirreno del 18 marzo 2009

La strage di Sant'Anna di Stazzema. Una telefonata dalla Germania: “Mio nonno è l’SS che ti salvò la vita”
di Simone Tonini

La strage di Sant'Anna di Stazzema. Una telefonata dalla Germania: “Mio nonno è l’SS che ti salvò la vita”
Enio Mancini, sopravvissuto alla strage di Sant'Anna di Stazzema, bambino all'epoca dei fatti, dopo 66 anni riceve una telefonata dalla Germania: è Jochen Kirwel, il nipote del soldato nazista che, sparando una raffica di mitra nel vuoto, salvò la sua vita e quella della sua famiglia: un segreto rivelato solo alla moglie in punto di morte. Quel giorno, il 12 agosto del '44, le Ss massacrarono 560 persone. Giovedì 26 al Goethe Institute di Roma ci sarà l'incontro
di Simone Tonini

STAZZEMA. «Pronto, ich heisse Jochen Kirwel». La voce di un giovane, al telefono. Dice poche parole non comprensibili, in tedesco. Una volta tradotte, saranno sconvolgenti: «Mio nonno, Peter Bonzelet, era il soldato tedesco che nel bosco di Sant’Anna sparò in aria». Segue il silenzio.
Enio Mancini, superstite dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, non parla tedesco. Non riesce a comprendere quella frase ma resta calmo. D’altronde lui, memoria storica e a lungo direttore del Museo storico della Resistenza, ha tanti amici e conoscenti in Germania. Quella chiamata, quindi, non lo sorprende più di tanto. «Per favore parli in italiano, conosco il francese ma non il tedesco», aggiunge con cortesia.
Passa un quarto d’ora e il telefono torna a squillare; ma stavolta la voce riesce a farsi capire. Con fatica, il giovane legge la frase, tradotta in italiano. «Mi chiamo Jochen Kirwel: mio nonno, Peter Bonzelet, era il soldato tedesco che nel bosco di Sant’Anna sparò in aria». In questo modo, dopo sessantasei anni, Enio conosce il nome del soldato che, sparando una raffica di mitra nel vuoto, gli salvò la vita. E rivede la scena che gli ha segnato l’e sistenza. Ha sei anni e mezzo. Con altri bambini e con i suoi familiari sta per essere condotto sulla piazza della Chiesa, uno dei luoghi dell’eccidio del 12 agosto 1944.
D’un tratto, le SS si dividono lasciando il gruppo in mano a un giovane soldato: l’ordine è quello di fare fuoco ed uccidere. Una volta soli, con un gesto l’SS fa capire di volerli lasciare liberi, di risparmiarli: i bambini si voltano e si allontanano. Dopo pochi istanti, esplode, fragorosa e per una volta innocua, una raffica di mitra. Il gruppo è salvo. «Credevamo che ci sparasse, per un istante abbiamo pensato di morire. Invece quel giovane soldato stava sparando in aria, per far credere ai suoi di averci ucciso». Per anni Enio Mancini ha raccontato a migliaia di persone il modo in cui è scampato alla morte: grazie a un gesto di misericordia in mezzo a tanto orrore.
«Quando ho capito con chi stavo parlando al telefono - spiega Mancini - sono rimasto di sasso; continuare ad ascoltare è stato davvero difficile e infatti dopo quella chiamata non ho parlato, per ore. Da sempre ho cercato invano di avere qualche notizia di quel giovane che ci risparmiò. Adesso so chi devo ringraziare».
Peter Bonzelet in divisa da SsPeter Bonzelet era una delle SS che il 12 agosto 1944 salirono a Sant’Anna di Stazzema per trucidare 560 innocenti. Donne, bambini, anziani uccisi barbaramente, il paese distrutto con il fuoco, a cancellare ogni traccia di quell’orrore. Persino la giustizia ha provato a far dimenticare il massacro, con una verità che è emersa solo dopo sessant’anni, con il processo di La Spezia. Chi non ha mai dimenticato sono loro, i bambini di Sant’Anna che sopravvissero all’eccidio e hanno speso tutta la vita a raccontare quella tragedia.
Proprio per questo grande impegno, sia Mancini che Enrico Pieri, presidente dell’Associazione Martiri di Sant’Anna, saranno premiati il 26 marzo a Roma dalla Repubblica Federale di Germania con un’a lta onorificenza. E quel giorno Jochen Kirwel, che ha 27 anni, incontrerà Mancini.
Peter Bonzelet è deceduto nell’ottobre del 1990. Viveva a Mainz (Magonza), in Germania, dove risiede anche Jochen. «Mio nonno - riassume Jochen - faceva parte delle Waffen SS, utilizzate per operazioni contro i partigiani. Non ha mai parlato della guerra con nessuno tranne che con mia nonna. Ho conosciuto la vicenda solo sei mesi fa: poco prima di morire, mia nonna ha affidato a me la storia».
A quel punto Jochen ha cercato su internet informazioni su Sant’A nna di Stazzema. «Ho letto il racconto di Enio: corrispondeva a quello di mio nonno. Mancini diceva di essere stato risparmiato da un soldato tedesco che invece di sparare a lui e agli altri, aveva fatto fuoco in aria. Era ciò che mi aveva raccontato mia nonna: in quel crimine spaventoso, era stato compiuto almeno un gesto di umanità».
Per Peter non è stato facile tornare a casa, dopo l’orrore di quel giorno maledetto in alta Versilia. «Si è trascinato dietro, per tutta la vita, i fantasmi della guerra - racconta il nipote - ha dovuto curarsi perché quelle immagini lo perseguitavano giorno e notte. Si è chiuso nel silenzio».
Quando Jochen è riuscito a rintracciare il recapito, Mancini non sapeva cosa fare. «Mi sono chiesto per giorni quale fosse la cosa giusta, chiedendomi come avrebbe reagito. Ma volevo conoscerlo, chiedergli scusa per i crimini di cui sono responsabili anche mio nonno e i suoi compagni. E stringere la mano all’uomo che mio nonno ha risparmiato. Così ho deciso di telefonare».
Un ruolo importante nella vicenda è rivestito dai coniugi Horst e Maren Westermann, i due musicisti tedeschi che nel 2007 hanno ricostruito l’Organo della Pace a Sant’Anna. «E’ grazie al loro interessamento che la Repubblica federale tedesca ha concesso l’a lta onoreficenza che, con Enrico Pieri, ritireremo a Roma - commenta Enio Mancini - e sempre grazie a loro è stato possibile stabilire il contatto con Jochen e conoscere il nome di quel soldato». Quel nome è Peter Bonzelet.
(18 marzo 2010)

sabato 6 marzo 2010

Il Perdono di Pirini

Dal blog "Notizie dalle valli del Reno e del Setta" di Francesco Fabbriani
Il Perdono di Pirini del 25 febbraio 2010
“Ho perdonato i nazisti”. La frase è stata pronunciata dal palco del teatro di Marzabotto dal superstite dell’eccidio di Monte Sole Francesco Pirini in un incontro con gli studenti di Marzabotto, Vergato e Sasso Marconi sul film di Giorgio Diritti ‘L’uomo che verrà’ incentrato per l’appunto sull’eccidio nazi fascista di Monte Sole. Francesco ha poi spiegato: “Ho perdonato perché a settant’anni da quella barbarie, gli eccidi delle popolazioni civili si ripetono e si aggravano e non voglio essere proprio io uno dei fomentatori di odio”. La frase è rimbalzata fra le pareti del teatro di Marzabotto inattesa poiché Pirini aveva appena finito di raccontare le tristissime vicende dell’autunno del ’44 a Cerpiano dove ha perso ben13 congiunti fra cui la madre. “Quando Reder era in prigione e ha chiesto il ‘perdono’ sono stato fra quelli che lo hanno negato. Non riuscivo a perdonare. Poi, suor Benni, anche lei miracolosamente risparmiata dalla morte, mi ha rimproverato di non aver perdonato nonostante la mia fede cristiana. Mi sono poi trovato a raccontare gli eventi di Cerpiano a un tedesco che mi ha chiesto se avevo perdonato. Ho risposto: sì, ho perdonato. Lui è stato il primo a saperlo. Mi ha rifatto la domanda credendo che ci fosse stata una incomprensione. E’ rimasto molto colpito quando ho ripetuto la frase”. Scopo dell’incontro era comunque quello di soddisfare le domande degli alunni, dopo aver visto il film di Diritti, rivolte ai protagonisti delle vicende di monte Sole e agli artefici del film. Oltre a Pirini, erano presenti l’ex staffetta partigiana Franco Fontana, il cosceneggiatore Giovanni Galavotti, il produttore Simone Bachini e le giovanissime comparse Fabio Franchi di Marzabotto e Lorenzo Rubini di Sasso Marconi. Presente anche il sindaco di Marzabotto Romano Franchi. I ragazzi hanno chiesto tra l’altro: cosa vi ha spinto fare un film su Monte Sole? “L’episodio è molto importante non solo perché ricorda ciò che è successo, ma anche perché queste vicende succedono ancora”, ha risposto Galavotti. “La storia di Monte Sole ci ha subito colpito e abbiamo quindi voluto raccontarla anche perché non era mai stata protagonista di un film”. Alle comparse hanno chiesto se era stato bello girare il film: “E’ stata una esperienza magnifica” hanno precisato, “anche se molto pesante”. Poi gli studenti sono entrati nello specifico chiedendo come era stato possibile realizzare la pancia finta della mamma della protagonista ,“Con sostanze in lattice, utilizzando processi di particolare applicazione”. L’ex staffetta partigiana Fontana ha spiegato che il disimpegno partigiano a Monte Sole è stato dovuto all’impossibilità di intervenire per mancanza di armi: “Quella settimana avrebbero dovuto essere paracadutate armi su Monte Sole dagli Alleati. I lanci purtroppo non avvennero e i partigiani erano sostanzialmente disarmati”.

giovedì 4 marzo 2010

Davide Perlini: «Ho ritrovato mio padre e mia sorella dopo 65 anni»



Da Il Resto del Carlino del 30 gennaio 2010 riportiamo l'articolo di Gianni Leoni
«Ho ritrovato mio padre e mia sorella dopo 65 anni»
La lunga ricerca di un bolognese. Sua madre amò un soldato scozzese

di GIANNI LEONI —BOLOGNA—
«MIO PADRE David era un soldato britannico, ma io non l’ho mai conosciuto. Ha altri figli? E dov’è adesso? Una piccola serie di domande inutilmente rilanciate di porta in porta per cinque, lunghissimi anni da uno all’altro dei paesi dell’Appennino toscoemiliano, agli gli amici e ai parenti, agli sconosciuti, ai quotidiani e ai periodici, alle associazioni, alle radio e alle tv, durante dibattiti e ricorrenze, lungo strade, campi, municipi, parrocchie, boschi e sentieri. Poi, l’altro giorno, una flebile luce ha rischiarato il buio: forse..., e su quello spiraglio la straordinaria ricerca di Davide Perlini, 65 anni, portalettere in pensione, ha preso vigore. E infatti, una generosa catena di solidarietà avviata dalla trasmissione ‘Chi l’ha visto?’, proseguita dalla molisana Raffaella Matera, appassionata di genealogia e dal giornalista Filippo Baglini, che risiede in Inghilterra, ha superato il mare, è approdata in una casa lontana ed ha finalmente ricomposto il grande puzzle di una storia in sospeso. «Per tanti anni sono stato un padre senza padre. Adesso ho cancellato l’angoscia dal mio cuore. Mio padre, quinto di otto fratelli, era venuto al mondo [...] [in una cittadina del] Lanarkshire, Scozia, ed è scomparso nel ’94. C’è invece una sua figlia, mia sorellastra, con la quale sono già in contatto. Sapere l’uno dell’altro, scriverci, scambiarci i ricordi e le immagini, sognare l’abbraccio del primo incontro ha procurato a entrambi un’emozione fortissima e una gioia senza limiti», racconta. Alla mancanza di quell’uomo senza voce, Davide Perlini, figlio di Fernanda Perlini e di un portaordini inglese svanito tra i monti di Castiglion dei Pepoli sull’eco dell’ultima bomba di guerra, non si era mai rassegnato. «Dov’è papà?», quasi supplicava un giorno dopo l’altro. La madre, però, dopo una timida, iniziale ricerca affidata a una lettera senza risposta si chiuse nel silenzio e vincolò il figlio a una sofferta promessa: «Finché sono in vita non cercarlo». E DAVIDE a quel patto si attenne. Ma nel 2005, rimasto orfano, decise di ricostruire la storia della sua nascita e quindi di cercare chi lo aveva messo al mondo. Un tetro ventaccio di bombe e di paura correva tra i boschi e risaliva i monti quando il soldato David Jackson, nel 1944, incontrò Fernanda, a Lagaro di Castiglion dei Pepoli. Un clima senza domani nel quale riuscì a farsi strada una parentesi d’amore. «Tornerai?», chiese la giovane. «Tornerò» promise il portaordini in partenza. Lei rimase incinta, ma lui era già lontano. E quando il tuono delle bombe lasciò il posto alla speranza, la nascita del ‘bastardino’ concentrò gli indici accusatori contro la ‘svergognata’. «La mamma mi affidò a un orfanotrofio e si trasferì a Milano a fare la serva», dice Davide. Poi, il ritorno a Bologna, il ricongiungimento con il figlioletto e quella promessa, quasi un ordine: «Tuo padre? Non cercarlo». Poi, cinque anni fa, l’avvio delle ricerche, ma la strada per risalire all’ex soldato si è fatta subito tortuosa perché i quesiti, le suppliche, gli appelli e i controllo ribaditi in un tam tam sorretto da un nome David Jackson, da un indirizzo senza conferma, New Place trenton RD Bermondsey, London e da una speranza puntualmente rinviata al giorno dopo si perdevano ogni volta nel nulla. C’è voluta la trasmissione ‘Chi l’ha visto?’, per imboccare il sentiero giusto. Raffaella Matera ha raccolto l’appello ed ha sfruttato l’unico indizio fornito daDavide: un pezzo di giornale dei tempi di guerra con la foto di tre fratelli Jackson militari in zone diverse dell’Italia, ma per una volta insieme. L’aveva pubblicata la ‘Gazette’ di Carluke, in Scozia, il 19 maggio 1944. E proprio in quella zona risiedeva la famiglia Jackson. IL GIORNALISTA italiano Filippo Baglini, che lavora in un giornale on line per gli italiani in Inghilterra, ha svolto con successo l’ultima, delicatissima fase: quella di informare la figlia del soldato David Jackson sull’esistenza di un fratello in Italia. «Finalmente il mio sogno è diventato realtà. Abbraccerò mia sorella e sarà un po’ come abbracciare mio padre», dice, commosso, Davide Perlini.

sabato 28 novembre 2009

Il figlio del partigiano


Riportiamo questa lettera-sfogo di Vittorio V. tratta dal blog di Beppe Grillo del 27 novembre 2009
Il figlio del partigiano
"Beppe, stammi a sentire, sono il figlio di un partigiano, era nelle Brigate Garibaldi, dopo la guerra non ha mai fatto politica attiva, mi ha dato l'esempio ogni giorno con la sua onestà che per lui non era "uno stile di vita" come dicono oggi con grande prosopopea molti imbecilli, ma più semplicemente l'unica scelta possibile: essere sé stesso. Ha allevato i figli con mille sacrifici, ha sempre lavorato per mantenere la famiglia, un doppio lavoro, anche la sera, ma non si è mai lamentato, anzi, lo ricordo spesso fischiettare "Volare" di Domenico Modugno. Poteva comprarsi il giornale solo la domenica mattina e in vacanza non ci è andato mai. Qualche settimana dai parenti in campagna era il massimo per lui. Era un partigiano, ma quando Mussolini fu appeso non era contento. Non amava la violenza anche se ha sparato e forse ucciso, anche se questo non me lo ha mai detto. Ha protetto a suo rischio una famiglia ebrea e evitato la fucilazione di un fascista perché per lui non erano ebrei o fascisti, ma solo uomini, donne, persone. Quando arrivarono gli aerei americani a bombardare e uccidere migliaia di civili mentre mia madre io e i miei fratelli eravamo nel rifugio, lui saliva sul tetto a sventolare la bandiera italiana per dimostrare la sua indignazione. Oggi gli americani partono dalle nostre basi per bombardare altri popoli e i fascisti, o meglio la loro caricatura, sono al governo insieme a gente che ha frequentato mafiosi per tutta la vita. Mio padre non era un santo, era un italiano come tanti, di una generazione che non aveva bisogno di credere nei valori, perché i valori erano parte della loro esistenza quotidiana. Ti ho scritto perché la realtà che vedo non è quella che voleva lui, per la quale ha rischiato la pelle pur avendo tre figli. E' solo uno sfogo. Ma quando sento dire che in guerra erano tutti uguali, questo non è vero. E quando lo stesso ragionamento è fatto oggi, in tempo di pace, ancora non è vero. Non siamo tutti uguali. Per me, forse sono parole forti, esistono veramente il Bene il Male. E chiunque li può distinguere. Nessuno può chiamarsi fuori in questo momento." Vittorio V.

giovedì 29 ottobre 2009

La storia di Davide Perlini su Chi l'ha visto (Rai Tre)


Davide Perlini cerca il suo papà scozzese (clicca sul link per vedere il filmato online).
Davide Perlini abita a Bologna ed è un postino di 63 anni in pensione. Nel 1944 sua madre che viveva a Castiglione dei Pepoli (Bologna) conobbe e si innamorò di un soldato scozzese della R.A.S.C. di nome David Jackson. Si accorse di aspettare un bambino ma purtroppo non ebbe modo di dirglielo perchè o si spostò il fronte o lui fu ucciso. Fece di tutto per poterlo rintracciare ma purtroppo non ci riuscì. L'anno dopo nacque Davide e purtroppo in quel periodo quelli nati fuori dal matrimonio erano considerati bastardini e la madre e il bambino furono cacciati di casa. Il bambino finì in un orfanatrofio per 14 anni e sua madre a fare la cameriera a Milano. Quando Davide uscì dal collegio, tornò a vivere con la madre a Bologna. Adolescente chiese alla donna di suo padre e lei, piangendo, gli raccontò del bene che si erano voluti e di quanto aveva fatto per poterlo ritrovare ma che nessuno le aveva dato una mano.
Rai Tre - Chi l'ha visto: puntata del 12 ottobre 2009

lunedì 5 ottobre 2009

Monte Sole: 4 ottobre 2009


La commerazione dell'eccidio di Monte Sole è stata un'occasione per ritrovare i vecchi amici:
In piedi (da sx): Heidi Johnson, Daniele Amicarella, Giancarlo Rivelli, Luca Morini e Alessandro Baldi
Seduti: Regana, Desmond Burges e Elide Ruggeri
Al mattino a Marzabotto abbiamo incontrato Celso Battaglia e Davide Perlini.

sabato 5 settembre 2009

Bianka Mordier e Davide Perlini: due storie


Dal Resto del Carlino (Bologna) del 1 settembre 2009 due articoli di Gianni Leoni
"Aiutatemi a ritrovare Raimondo, mio padre" l'appello dalla Germania di Bianka Mordier
SOLO il nome: Raimondo. E il sunto di uno stato civile: sposato, due figli. Poco altro: veniva da Bologna o dai dintorni e negli anni della guerra lavorava alla ‘Baumann’, di Althhuettendolf, non lontano da Berlino, insieme con un altro italiano, Roberto, fidanzato con una ragazza russa, Nadia. Le note per il ‘chi l’ha visto?’ si fermano qui. Il resto l’hanno cancellato la polvere del tempo, il destino e qualche vuoto di memoria. Eppure Bianka Mordier non si arrende e in questi giorni d’estate abbandona l’anonimato per diffondere la breve, sofferta cronaca di un tormento personale. Perché lei cerca il padre vero, quel Raimondo prigioniero in Germania e occupato alla ‘Baumann’, ora estinta, come operaio agricolo e di manutenzione stradale. «CHIEDO ai lettori del Carlino di aiutarmi a trovare una traccia che mi porti fino a lui o ai suoi famigliari», scrive. Ma non è facile ridar vita a quegli anni lontani, ai volti, agli odi e agli amori di mille storie a puntate tra bombe, minacce, speranze e paure. La signora tedesca lancia comunque un appello dalla sua casa di Glauburg e aggiunge, ai pochi dati, l’esile trama di una vicenda messa insieme alla meglio da brandelli di racconti, date, nomi approssimativi o incompleti, deduzioni e sensazioni. «Quando sono venuta al mondo, il 12 settembre 1943, quello che ho sempre considerato mio padre era un soldato della Wehrmacht —racconta—.Con lui sono cresciuta in famiglia, senza mai sospettare il retroscena di una vicenda completamente diversa. Perché in realtà, come ho saputo successivamente, io sono figlia di un operaio italiano, con moglie e due figli, deportato in Germania. Il mio vero genitore era occupato in un’azienda specializzata in lavori agricoli e di manutenzione stradale. Quell’uomo tornò nel Bolognese alla fine della guerra, quando io avevo un anno e mezzo. E con lui partirono il suo amico Roberto e la fidanzata russa». BIANKA ha saputo la verità dal fratello maggiore, dopo la scomparsa della loro madre, e adesso pensa che forse il padre ‘acquisito’ la trattava male «perché portava, nell’animo, quel pesante segreto ». «Vorrei risalire alle mie radici, sapere se Raimondo è vivo, o se è morto —continua la signora—. Ma anche se ha avuto altri figli. Non è facile, ma riannodare quel filo mi darebbe un’immensa emozione. Ecco perché chiedo aiuto. Tutti i precedenti tentativi si sono fermati al primo passo. Mi sono rivolta anche agli uffici tedeschi e al servizio internazionale di ricerca della Croce Rossa, ma la vicenda non ha avuto sviluppi. E allora mi rivolgo ai lettori del Carlino: datemi una mano a ricostruire il mio passato».


Dal Resto del Carlino (Bologna) del 1 settembre 2009 due articoli di Gianni Leoni
"Cerco il soldato David: ditegli che sono suo figlio» Le radici inglesi di Davide Perlini
IL SOLDATO David veniva dall’Inghilterra. La giovane Fernanda, invece, abitava alla Sterlina di Lagaro, lungo la strada che sale a Castiglion dei Pepoli. Nel mese di novembre 1944 incrociarono gli sguardi e un timido sorriso. «Piacere», disse lui in un italiano stentato. «Piacere», rispose lei un po’ turbata. Poi, il sussurro di qualche promessa sull’eco di un grappolo di bombe ormai senza carica, un’ora d’amore, uno scambio di indirizzi e l’addio. Lei gli scrisse, lui non rispose, i giorni, gli anni e nuovi fatti sbiadirono emozioni e ricordi. ADESSO lo sviluppo di quell’amore ha 64 anni, si chiama Davide come il padre, di cognome fa Perlini come la madre e da tempo batte casolari, paesi, strade, montagne, archivi, parrocchie, giornali, uffici, caserme e chissà cos’altro in cerca di una traccia di quell’uomo svanito sugli ultimi, tetri bagliori della guerra. «Mia madre è morta a 92 anni, nel 2005, e fino a quel momento ho mantenuto la promessa di non cercare chi l’aveva messa incinta. Ora quel vincolo non c’è più e ho deciso di muovermi perché sono a mia volta padre, ma anche un uomo senza padre. Di quel soldato inglese ho un nome, un cognome e un indirizzo: David Jackson, 15 New Place Trenton RD: Bermondsey, London. E’ vivo? Non c’è più? E ha avuto altri figli? E in questo caso, dove sono e come si chiamano? Ho scritto dappertutto e a tutti. Ho fatto tradurre in inglese una sintesi della mia storia e l’ho spedita a un buon numero di ex militari inglesi, ma anche ad alcuni giornali di Londra, della Scozia e di altri Paesi. Speriamo di avere una risposta». COSI’ DICE Davide Perlini, ex postino in un’agenzia privata, sposato con Emma, un figlio dal nome ‘un po’ inglese, Alan. La sua casa in via Irma Bandiera 9, a Bologna, è un piccolo museo di ricordi e di speranza. Ed ecco, infatti, le foto della mamma a piedi e in bicicletta, quelle del soldato inglese e quelle del piccolo Davide. «Si conobbero perché a Lagaro c’era il fronte. Lui faceva il portaordini ed era più giovane di una decina di anni». Quando Fernanda Perlini si accorse di essere incinta il soldato David era già rientrato in patria. La notizia dello ‘scandalo’, però, spinse la ragazza nell’angolo buio delle svergognate. Ma come, un figlio senza matrimonio? Che colpa grave! E che disonore! «CHE FARE di un ‘bastardino’, dicevano in paese. E allora la mamma, cacciata di casa, andò a Milano a fare la serva e per me si aprirono le porte dell’orfanotrofio. A 15 anni sono tornato con lei, a Bologna. Qualche tempo dopo mi legò a quella promessa: ‘finché sono viva non cercare tuo padre’, disse. Adesso esco da quel vincolo e chiedo aiuto. Un anno fa a Marzabotto, durante la cerimonia per la ricorrenza delle stragi nazifasciste, ho conosciuto Desmond Burgess, un ex soldato inglese che stava a Lagaro nei giorni in cui c’era anche mio padre. Ha promesso di interessarsi al mio caso. Qualcun altro può darmi una mano? Aspetto notizie del soldato David al 338 21 35 170 o al sito dav.per@alice.it».